Psicoanalisi e dintorni
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“I LIMITI DELL’INTERPRETAZIONE. Saggio su Bion e sul campo analitico” di Giuseppe Civitarese. – Recensione di Elisabetta Bellagamba

“I limiti dell’interpretazione. Saggi su Bion e il campo analitico”. Lavoro, fresco di stampa, di Civitarese nel quale percorre alcuni scritti dell’autore mostrandoci, in modo minuzioso e creativo, come fossero già in essere, in questi testi, i semi del cosiddetto “ultimo Bion”.

 

Il pensiero di Bion, che può essere considerato per alcuni aspetti intersoggettivo, è alla base del modello post-bioniano del campo analitico. Tale modello equipaggia, secondo l’autore, di una maggior forma la tecnica della teoria bioniana e allo stesso tempo la estende. La coppia analista- paziente può essere considerata un gruppo e non più come due persone separate. In tal senso le narrazioni e ciò che succede in analisi possono essere ritenute come un’inconscia co-costruzione, nella quale entrambi i membri partecipano. Infatti, in accordo con Bion, che alla fine del testo “Esperienze nei gruppi” equipara la psicoanalisi individuale a quella di gruppo, Civitarese propone la visione della coppia analitica come un gruppo. L’assunto di base della coppia diventa “l’esperienza emotiva inconscia” (p. 27) che avviene nel qui e ora, quella che viene definita, sottolinea Civitarese, come O. Allora per questo in ogni seduta occorre prestare orecchio, osservare e sentire il “bollettino meteo”, per poter intravedere quel fatto scelto che poi porterà all’azione più funzionale e utile. In quest’ottica la finalità della cura riguarda la creazione di un ambiente deputato alla crescita e allo sviluppo affinché l’essere del soggetto possa dispiegarsi durante il processo analitico ponendo attenzione al suo divenire, poiché O può “solo essere diventato” (p. 65). Questo permette, anche, di passare da un ascolto “sospettoso” ad un ascolto “rispettoso” di ciò che il paziente comunica in seduta.

 

L’autore ci conduce verso la riflessione che in presenza di forti turbolenze emotive l’eccesso di differenza porta ad una lacerazione, nonché a delle continue e ampie oscillazioni tra aspetti e posizioni contrapposte. Lo strumento principe della psicoanalisi per ridurre tali oscillazioni è l’interpretazione non solo intesa come “intervento fatto al paziente…ma anche come ricettività al significato inconscio del discorso” (p. 36). Da qui nasce la proposta di rispettare i limiti dell’interpretazione, ossia di “realizzare che non c’è solo la comunicazione verbale, ma anche quella non verbale e che le due non si dovrebbero mai scindere l’una dall’altra” (p.37). L’autore offre la differenziazione tra interpretazione implicita che ha la funzione di creare momenti di riconoscimento reciproco, grazie alla capacità dell’analista di essere ricettivo al discorso inconscio in modo da riconoscere la reciproca posizione nel campo e interpretazione esplicita che ha la funzione di mettere in parole e si intende con essa ciò che l’analista dice al paziente.

 

Ripercorrendo il saggio “Sull’arroganza”, Civitarese mette in luce, in accordo con l’interpretazione che ne dà Bion, che la psicoanalisi può correre il rischio, in alcuni frangenti, di essere arrogante e, così, individua quegli elementi utili per un rinnovamento del paradigma psicoanalitico. L’analista dovrebbe adoperare il proprio inconscio per accogliere e comprendere gli aspetti non verbali, le emozioni e l’affettività. Tale vertice può creare quell’esperienza affettiva condivisa capace di generare quel noi, oltrepassando l’io e il tu, e andando oltre al pericolo di una posizione “arrogante”. A questo proposito, Civitarese in un suo precedente lavoro (2022) intitolato “Sull’arroganza. Saggio di psicoanalisi”, sottolinea che l’analista, come Edipo, può essere accecato dal suo desiderio di conoscere la verità e cadere in una posizione “rocciosa o dogmatica” (p.121) a scapito di un lavoro analitico centrato sul “ripristino di una linea di comunicazione con le ragioni del corpo, che rimetta al centro della cura le emozioni e gli affetti” (p.104).

 

L’esserci nel momento presente porta con sé ciò che Bion descrive come trasformazione in O. Questo apre a delle considerazioni, sottolinea Civitarese, e a ulteriori domande. Quale è la funzione dell’indagare il passato? Quale è la funzione di tutte quelle Trasformazioni in K, ossia trasformazioni legate alla conoscenza, sapendo che, come lo stesso Bion afferma, il vero cambiamento psichico si produce ad un livello chiamato Trasformazioni in O? Soprattutto che rimanendo a livello delle rappresentazioni, che Bion chiamava T(K), è impossibile conoscere l’origine di T(O)? C’è una profonda differenza tra dire “cane” nel linguaggio della sostituzione nel quale si trasmette l’immagine e il concetto mentale del cane e, invece, trasmettere l’esperienza in evoluzione continua che sta emergendo, nell’hic et nunc, dell’incontro con quello specifico cane e la risonanza emotiva con l’aspetto canino di cui ogni singolo cane è portatore. È un fare sintesi tra la propria esperienza di cane (soggettiva) e quella di caninità (ontologica). In questa seconda situazione si verifica quella comunicazione affettivo-somatica fondamentale capace di creare quei momenti in cui analista e paziente sono all’unisono emotivo. Proprio tali momenti sono alla base del processo analitico perché “estraggono ordine dal caos” (p. 167). In questa visione si precisa una differenza tra “l’attenzione al conoscere (contenuti rimossi) e l’attenzione allo sviluppo dell’essere, al divenire” (p. 188). Si passa da una psicoanalisi basata più sulla conoscenza (epistemologica) a una psicoanalisi basata più sullo sviluppo di funzioni psichiche (ontologica). L’autore promuove l’importanza che al centro del processo di analisi non ci sia più tanto la ricerca di contenuti rimossi da scoprire, bensì il creare le condizioni e le fondamenta affinché si possano realizzare momenti di at-one-ment, ossia di riconoscimento intersoggettivo o di sintonizzazione emotiva. Giuseppe Civitarese, dà vita, in questo suo lavoro, a un approfondito e vivificante dialogo tra il vecchio e il nuovo paradigma della psicoanalisi, che si può definire più ontologico che epistemico, che come scritto poco sopra, è teso maggiormente a promuovere nuove funzioni della mente piuttosto che a disvelare contenuti rimossi. Mantenere una visuale aperta e in evoluzione che permette maggiormente di stare a contatto con l’ineffabilità e l’ignoto, permette di “giocare” con il divenire, con ciò che emerge e, anche con ciò che è in attesa di emergere, di operare quelle trasformazioni in gioco e quelle trasformazioni in sogno, utili a cogliere e trasformare il “selvaggio” che circola dentro la narrazione e a sognare ciò che deve essere sognato. Utilizzando una metafora, una rana in fondo al pozzo non può concepire l’oceano, che sta a significare alcuni limiti che le costruzioni intellettuali posso avere, andando, così a privilegiare l’esperienza diretta di ciò che è.

 

Come nasce la percezione del tempo soggettivo? “Conosco una sola maniera di misurare il tempo: con te e senza di te”. La dedica di Roberto Benigni a Nicoletta Braschi, dopo il Leone d’oro alla carriera ricevuto al 78esimo Festival del cinema di Venezia, ci mostra in altre parole ciò che Civitarese ha evidenziato nel suo lavoro. Partendo dal testo “Una teoria del pensare”, attraverso un’importante distinzione operata da Bion tra nozione e pensiero, sostiene che è proprio tale matrice, se inscritta attraverso il linguaggio nell’ordine simbolico, che fa nascere il tempo vissuto…quel tempo che “deriva non solo dalla presenza concreta o dall’assenza di un oggetto, ma dal modo in cui questi eventi vengono percepiti e interiorizzati dal soggetto” (p.13). La “stoffa del tempo non può che essere fatta di relazioni dialettiche basate innanzitutto sulla capacità fisica di ritenere tracce mnestiche di realizzazioni positive e negative” (p.121). Civitarese ipotizza che il tempo come “sentimento di esistere sia il prodotto dei ritmi di presentazione di seno e non seno” (p. 124).

 

Ma durante il processo analitico cosa è davvero quello che conta? Qui l’autore ci fa addestrare nel concetto di intuizione. È di capitale importanza l’intuizione del clima emotivo dell’incontro. La comprensione emotiva profonda si può realizzare attraverso l’intercorporeità di quello che sta accadendo. In questa ottica l’intuizione diventa uno strumento della tecnica. Intuizione che va affinata affinché possa essere al servizio di una spontaneità che permetta alla tecnica di essere integrata “nella memoria inconscia” (p. 140), suggerisce Civitarese. Da ciò si evince che la tecnica cosciente lascia spazio e cede piano piano il passo ad una spontaneità educata.

 

La psicoanalisi viene così concepita da Civitarese come una forma di arte dell’intuizione legata alla capacità di sognare. Ciò permette di far crescere il contenitore mentale del paziente così che lui possa contenere le sue stesse emozioni dandogli un senso.

 

L’autore nel suo testo ha generato un clima emotivo creativo, che si estende anche al lettore al punto che permette di “giocare” con le sue riflessioni. Proprio giocando con i concetti esposti e ruotando la prospettiva che essi mi sembra che si possano collegare parzialmente con la teorizzazione di Schore del testo “Psicoterapia con l’emisfero destro”.

 

Si può forse inferire che è sempre più necessario utilizzare un linguaggio emotivo che prenda le mosse dal senso, dal mito e dalla passione, un linguaggio dell’effettività, riprendendo Bion. Un linguaggio che possa assumere una forma rappresentativa più che esplicativa, un linguaggio evocativo in grado di creare immagini metaforiche utili a incuriosire il paziente al proprio funzionamento mentale. Il linguaggio analogico-metaforico proprio della favola e del mito sembra assumere quindi proprio questa funzione.

 

Concludendo l’opera di Civitarese permette non solo di approfondire il pensiero bioniano, ma soprattutto anima una profonda riflessione sulla tecnica e sulle sue evoluzioni contemporanee. La sua lettura, quindi, è fondamentale per chi è desideroso di ampliare la propria prospettiva di osservazione sulla psiche.

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