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Un caffè con l’analista

Ascoltalo su Spotify, ITunes o Google Podcast.

Conduzione: Teresa Lorito

Progetto e produzione: Ilaria Sarmiento

Un appuntamento mensile per pensare su ciò che avviene intorno a noi. Ogni puntata  nasce da uno sguardo sugli accadimenti sociali e culturali  attuali. Conversando con un ospite, Teresa Lorito, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana, con un linguaggio fruibile anche dai non addetti ai lavori, rappresenterà concetti, posizioni e punti di vista, che pur parlando di attualità non rinunciano alla complessità del pensiero psicoanalitico.

Confidiamo che quest’esperienza ci possa avvicinare a chi sente la psicoanalisi come qualcosa di distante e un po’ oscuro.

Ringraziamo Fabio Magnasciutti, illustratore e musicista,  che ci ha regalato un suo lavoro per illustrare il nostro podcast.

Acid Trumpet by Kevin MacLeod
Link: https://incompetech.filmmusic.io/song/3340-acid-trumpet
License: https://filmmusic.io/standard-license

 

Episodio 14 – In tempo di guerra – Un caffè con Paolo Fonda

Cosa succede in tempo di guerra? Chi porta un popolo in guerra spera nell’auto-idealizzazione del popolo stesso, idealizzare se stessi, porta a percepire l’altro come un diverso, un nemico. Può riuscire questa operazione a Putin? Nel momento in cui questo processo non funziona, riconosco nell’altro le mie stesse caratteristiche ed uccidere, diventa più difficile. 
Teresa Lorito, ne parla con Paolo Fonda, psicoanalista SPI e promotore, da anni, della formazione psicoanalitica nell’Est Europa.

 

Episodio 13 – Il figlicidio – Un caffè con Stefano Bolognini

Il 2022 si è aperto con alcuni episodi di cronaca che non sono, purtroppo, così infrequenti: genitori che uccidono i propri figli. A volte questo è dovuto a situazioni deliranti, altre a motivi vendicativi o di situazioni depressive post-parto. Dal perturbante di Freud, Teresa Lorito e Stefano Bolognini cercano di capire cosa può spingere un genitore a compiere un gesto così estremo.

Episodio 12 – Speciale “Giorno della memoria” – Un caffè con Alberto Sonnino

Per ricordare la Shoah, il progetto di eliminazione del popolo ebraico, una puntata speciale per il “Giorno della memoria”: Teresa Lorito ne parla con Alberto Sonnino.
Ricordare come immedesimazione nell’esperienza del passato, per apprendere dall’esperienza.
La tragedia della Shoah si riverbera inconsapevolmente nelle generazioni successive, lì dove è un corpo incistato nel silenzio, incistato nell’intrapsichico senza la possibilità di accedere, attraverso il ricordo, ad un pensiero ed a una mentalizzazione.

Episodio 11 – Ecologia e diniego del reale – Un caffè con Cosimo Schinaia

Teresa Lorito e Cosimo Schinaia, psicoanalista SPI, parlano di come, quotidianamente, compiamo scelte che riguardano l’ecologia. Nell’ecologia, come in altri fenomeni attuali, il diniego della realtà permette, però, di costruirne un’altra, in una modalità illusoria che allontana da scelte veramente consapevoli.

Episodio 10 – 25 novembre: Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne – Un caffè con Loretta Gianni

Cosa possiamo fare nella nostra quotidianità per combattere la violenza sulle donne. Il cambiamento deve essere culturale e deve essere agito. Cosa possiamo fare nel nostro quotidiano per contribuire ad un cambiamento culturale? Loretta Gianni, presidente di Pronto Donna, ci racconta la sua esperienza nel Centro Antiviolenza di Arezzo.

Episodio 9 – Il cosa e il come della formazione – Un caffè con Cristina Marogna

Come si può tenere viva la formazione? Partendo dal concetto di Bion “senza memoria e desiderio” come è possibile raggiungere un’epifania della conoscenza?
Cristina Marogna, psicoanalista SPI e professore associato dell’Università di Padova, analizza insieme a Teresa Lorito le fragilità del processo formativo. Perché oggi molti studenti soffrono della “Sindrome dell’impostore”?
Perché l’università ha bisogno della psicoanalisi e del pensiero psicoanalitico?

Episodio 8 – A proposito di eccellenze – Un caffè con Anna Ferruta

Cos’è l’eccellenza? Cosa implica l’eccellenza? Come si ottiene un risultato di eccellenza?
Partendo da alcuni eventi recenti, quali i successi sportivi agli Europei, Olimpiadi e Paraolimpiadi, ma anche il discorso delle tre ragazze alla consegna dei diplomi della Normale di Pisa ed il caso della ginnasta Biles, Anna Ferruta si interroga su cosa agisce a livello intrapsichico quando si cerca la massima espressione della potenzialità individuale.

Episodio 7 – Invecchiare, ma come? – Un caffè con Marcello Turno

Nella stagione estiva si ripresenta il tema dell’essere anziano. In una società in cui, fortunatamente, è sempre più facile arrivare all’età della vecchiaia, ci dobbiamo chiedere come affrontiamo e viviamo la terza età. La consapevolezza di un corpo che non è più quello di una volta, la solitudine, il decadimento cognitivo. Come far fronte tutto questo? Siamo pronti ad affrontare questa fase della vita?
Teresa Lorito ne parla con Marcello Turno, psicoanalista SPI.

Episodio 6 – In origine siamo migranti – Un caffè con Sarantis Thanopulos

“Chi abita una terra, la cambia nei millenni. Le radici sono fatte di altro. […] Se si respira la cultura di un Paese, questo mi apre al mondo, mi permette di amare il mondo nelle sue diversissime sfumature. La vita è qualcosa in movimento, che ci trasforma.”

Episodio 5 – Violenza sulle donne – Un caffè con Maria Pia Conte

In questo episodio Teresa Lorito prende un caffè con Maria Pia Conte, psicoanalista SPI, parlando di violenza di genere, le sue origini e le sue implicazioni.

Episodio 4 – Omotransfobia – Un caffè con Vittorio Lingiardi

Partendo dal ddl Zan, contro il crimine di odio, Vittorio Lingiardi e Teresa Lorito si interrogano sulla questione dell’omotransfobia e di come sia cambiato il pensiero psicoanalitico nei confronti dell’omosessualità.

Episodio 3 – Bambini e adolescenti: la fragilità ai tempi del Covid – Un caffè con Laura Colombi

Quali sono le fragilità evidenziate in bambini e adolescenti con l’attuale pandemia? Ne parliamo con Laura Colombi, psicoanalista SPI ed esperta in psicoanalisi dei bambini e degli adolescenti.

Episodio 2 – Il Covid tra onnipotenza e fiducia – Un caffè con Roberto Goisis

Episodio 1 – Unfit – Un caffè con Paolo Boccara

 

 

 

 

 

 

 

Gabbriellini G. (2020) L’ascolto e l’ostacolo.

Testo della presentazione di Gabriela Gabbriellini* in occasione del convegno Fausto Petrella. L’ascolto e l’ostacolo. Psicoanalisi e musica (Pisa, sabato 11 gennaio 2020, Museo della Grafica) che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autrice.

La presentazione di questo libro L’ascolto e l’ostacolo e la presenza del suo autore Fausto Petrella qua a Pisa è un momento molto significativo perché  richiama un percorso che proprio a Pisa, attraverso  le giornate dedicate a Psicoanalisi e Musica negli anni passati (settembre 2007, gennaio 2009, maggio 2012, giugno 2015) – dove la psicoanalisi interrogava e si lasciava interrogare dalla musica – ha preso le mosse e si è andato sviluppando. In quelle giornate pisane è stata preziosa la presenza di Fausto Petrella, così come quella di Pietro Bria e Antonio Di Benedetto, accomunati dalla passione, anche psicoanalitica, per la dimensione artistica in particolare musicale. Petrella, Bria e Di Benedetto oltre che dialogare tra dialogare tra loro, confrontandosi e scambiandosi  pensieri  sulla natura dei fenomeni sonoro/musicali all’interno di elaborazioni concettuali ed emotive dell’esperienza clinica, hanno dialogato in quelle giornate  con musicisti, compositori ed esecutori, sia di formazione classica (Sciarrino, Proietti, Ipata) sia jazzistica (Tonolo, Benedettini…) 

L’ Incontro tra psicoanalisti e musicisti, nel confronto tra punti di vista diversi, ha aiutato a pensare  sulla modalità estetica con cui opera la mente dell’analista nel processo continuo di trasformazione simbolica di elementi asimbolici. Di quelle esperienze pisane sono rimaste nel nostro gruppo tracce, presenti come fondo generativo di pensieri sul rapporto tra psicoanalisi e musica, che continua ad essere oggetto privilegiato delle nostre riflessioni attuali. Il lavoro di ricerca in questo ambito continua …

 Desidero ricordare Antonio Di Benedetto che ci ha lasciato la sua musica nelle forme in cui ha trasmesso il suo pensiero; un pensiero che non si è disperso con la fine della sua vita, ma é rimasto una fonte cui continuiamo ad attingere, un punto di riferimento risuonante nelle nostre menti. I temi e le problematiche affrontate nelle giornate pisane furono quelli dell’ascolto, dell’interpretazione, dell’improvvisazione,strumenti del lavoro analitico ed elementi costitutivi dell’attività musicale

Si parlò dell’ascolto,  di un ascolto psicoanalitico musicalmente orientato che rimanda al concetto di reverie acustica (Di Benedetto) cioè alla possibilità di pre-figurare a livello sensoriale-uditivo stati psichici non ancora percepiti: un atteggiamento recettivo che sposta il focus dell’attenzione da un registro visivo ad un registro uditivo centrato sulla colonna sonora delle verbalizzazioni – prosodia, timbro, tono del discorso-. L’’attenzione fu portata sulla risonanza emotiva quale strumento conoscitivo degli aspetti emozionali del paziente che,rimasti confinati nell’area preverbale del non detto, si rivelano attraverso gli elementi musicali del ritmo, del suono o di una qualche melodia interna della frase, insomma attraverso ciò che la parola maschera o non riesce ad esprimere .

Nell’area della indicibilità la psicoanalisi trova affinità con il linguaggio musicale che cerca di dare forma al sentire ,inesprimibile attraverso il linguaggio verbale. “Dove le parole finiscono inizia la musica” scrive il poeta tedesco H.Heine e -potremmo aggiungere- fa risuonare le parti profonde della psiche. 

Udire e poi dire: dall’ascolto all’interpretazione.

Si discusse dell’interpretazione che si inscrive in un ignoto e si organizza attraverso qualcosa che fa scattare insieme elementi diversi- frammenti ,immagini suoni, parole -, che d’improvviso si legano con altri e prendono possesso, abitandola, della mente dell’analista. Ogni suono, ascoltato nella sospensione e nell’incompiutezza, ricco di potenzialità di senso e veicolo di immaginazione poetica, va a formare una trama di forme immaginative che sorregge il nascere dell’interpretazione. Momenti di ispirazione creativa che gli artisti -musicisti, pittori, scrittori – frequentano quasi senza accorgersene e che l’analista cerca mediante le modalità di pensiero onirico. L’interpretazione psicoanalitica e l’interpretazione musicale s’incontrano nel fenomeno della creazione ed entrambe ci permettono di cogliere quello che a prima vista non sta scritto nella narrazione del paziente e nello spartito del musicista : si tratta di inventare un testo che ancora non c’é.

Sulla scia di Petrella , che nell’approfondire il suo pensiero sulle dimensioni musicali dell’esperienza analitica, toccò il tema dell’improvvisazione , la giornata del 2015 scelse il tema dell’improvvisazione e per alcune di noi (Gabbriellini, Luperini, Tancredi) i pensieri scaturiti da questo incontro furono il punto di partenza per sviluppare una riflessione sui quei momenti frequenti nella pratica clinica psicoanalitica, in cui accade tra analista e paziente qualcosa di “imprevisto”,che sfugge alle teorizzazioni della tecnica, ma mostra di essere alla base di profonde trasformazioni nella relazione analitica

Questi temi (ascolto, interpretazione, improvvisazione) ritornano, trattati e discussi nella loro complessità, nel libro L’ascolto e l’ostacolo disseminato di pensieri fecondi, che ci mette in contatto con il personale rapporto che Fausto Petrella ha con l’esperienza musicale e con il modo di trasmetterla, aiutandoci, nella lettura, a soggiornare presso/dentro la musica ed a cogliere il suo riverbero nel lavoro analitico. Scrive Petrella nell’Introduzione “Il riferimento alle arti mi ha sempre accompagnato lungo la mia vita personale e professionale. Tuttavia rispetto alle arti figurative, alla letteratura e al teatro la musica ha occupato per me un posto privilegiato. Dipende dall’ambiente in cui sono cresciuto e soprattutto dall’influenza di mio padre che di musica era appassionato cultore. (…) in fatto di musica mi ritengo solo un dilettante da sempre appassionato, che una certa pratica strumentale giovanile e la lunga frequentazione e riflessione sulla musica ha reso in qualche modo competente.” Ed ancora: “…. durante le mie conferenze far ascoltare la musica mi ha permesso di movimentare o addirittura rompere il quadro concettuale del discorso psicoanalitico, mettendo in contatto l’ascoltatore con emozioni, intuizioni, frammenti di un discorso musicale atto a generare aperture e vissuti che nessuna trattazione scientifica o nessun testo clinico permettono di realizzare. Lo scopo è avvicinare agli aspetti musicali di cui è ricca l’espressività che si manifesta nel lavoro analitico :tra ascolto e silenzio compaiono le vibrazioni di una vocalità rivelatrice e necessaria alla costituzione del senso e allo sviluppo della relazione e del processo analitico”.

L’ascolto e l’ostacolo appare Ispirato a un grande amore per la musica e per la psicoanalisi : Pietro Bria, Alberto Schon, Francesco Torrigiani, che ringrazio per essere qui , lo illustreranno , ciascuno nel proprio modo di dialogare con questa opera e con il suo autore.

Gabriela Gabbriellini*

Psicoanalista Centro Psicoanalitico di Firenze, Società Psicoanalitica Italiana, International Psychoanalytic Association

Zontini G. (2024) DESTINI DELLA RIPETIZIONE – Economia della coazione a ripetere

In queste note vorrei proporre qualche considerazione sull’aspetto economico della coazione di ripetizione. Tale aspetto, infatti, è, a mio avviso, presente nel pensiero freudiano fin dall’inizio delle sue riflessioni sulla funzione del meccanismo della ripetizione all’interno dell’apparato psichico. Cercherò, poi, di introdurre qualche considerazione sulle forme attuali degli aspetti economici della coazione di ripetizione.

Già nel 1914 Freud osserva come alcuni pazienti non siano in grado di ricordare rappresentazioni e affetti rimossi, nonostante gli sforzi dell’analista intesi a superare le resistenze e di conseguenza a sollevare la rimozione. Tali pazienti sono dunque costretti a ripetere in tutte le attività e relazioni della loro vita (inclusa la relazione di transfert con l’analista) atti, verbali e non, che sostituiscono il ricordo, determinando una coazione a ripetere che diviene, appunto, il loro modo di ricordare.

Poco dopo, Freud (1915) ritorna sulla questione della ripetizione, più specificamente denominata, a questo punto della sua riflessione, come coazione di ripetizione, collegandola all’inerzia psichica, un aspetto peculiare e, come egli stesso afferma, altamente specializzato del funzionamento dell’apparato psichico. Il legame tra la coazione di ripetizione e l’inerzia psichica consente a Freud di ipotizzare che la coazione di ripetizione sia intesa a manifestare legami tra determinate pulsioni e impressioni e gli oggetti ad esse collegati. Tali legami acquistano una tenacia che li rende molto difficili da sciogliere proprio perché formatisi in epoche assai remote nelle quali vige la conservazione della traccia affettiva e senso-motoria piuttosto che della traccia mnestica

Sempre nello stesso periodo, Freud (1915-1917) riprende la questione della ripetizione da un altro versante, notando come nelle nevrosi traumatiche anche i sogni sembrano intrappolati in una necessità di ripetere l’evento traumatico, come se questi pazienti non fossero venuti a capo del trauma e si proponessero il campito di sormontarlo après coup. La ripetizione diviene così un mezzo per gestire l’effrazione dell’apparato psichico provocata da un eccesso stimolatorio esterno che in tal modo assume un valore traumatico.

Nel 1919 Freud sposta il focus della sua attenzione relativamente alla coazione di ripetizione. Nel saggio su Il Perturbante, infatti, egli inizia a collegare più decisamente la coazione di ripetizione e la pulsione. In questo scritto, di fatto, Freud sostiene che la coazione di ripetizione proviene dai moti pulsionali essendo connessa alla natura più intima delle pulsioni. Per questo motivo, tale meccanismo possiede una forza che si impone a dispetto del principio di piacere e fornisce alla vita psichica un carattere demoniaco. La coazione di ripetizione, in questo momento della riflessione freudiana, non è più tanto volta a governare un eccitamento esterno quanto, piuttosto, a gestire o semplicemente rilevare quantità eccitatorie interne, pulsionali. 

Il legame coazione di ripetizione-pulsione sarà ribadito e precisato nel 1920. In Al di là del principio di piacere, infatti, Freud (1920) chiarisce che la coazione di ripetizione ha un carattere diverso dalla ripetizione di contenuti inconsci che non possono essere ricordati ed espressi verbalmente, ma possono manifestarsi solo, appunto, attraverso la ripetizione (dell’atto). I due meccanismi mostrano certamente numerose similitudini: usano entrambi l’atto, sostituiscono entrambi con esso funzionamenti maggiormente simbolici come il ricordo, entrambi si manifestano in terapia quando le difese dell’Io, soprattutto la rimozione, sono state superate o almeno ridotte dal lavoro terapeutico. In questo scritto, però, Freud, osservando la ripetitività del gioco infantile e delle caratteristiche del legame che si instaura tra il bambino e le figure parentali, assegna alla coazione di ripetizione una funzione per così dire fisiologica: ripetere le esperienze infantili che sono state piacevoli per fissarle affinché possano poi essere sottoposte al lavoro di rimozione e rese inconsce, un lavoro necessario perché il piacere di tali esperienze infantili non produca, nel corso dello sviluppo, dispiacere in un altro sistema: l’Io.

Questo aspetto fisiologico della coazione di ripetizione riguarderebbe, quindi, la trasformazione del moto pulsionale caotico e indifferenziato, in principio di piacere, che la stessa coazione di ripetizione poi nel corso dello sviluppo trasformerà nel principio di realtà che, come lo stesso Freud afferma, rappresenta una forma modificata del principio di piacere. Insomma, la coazione di ripetizione, nella sua forma originaria, elementare, trasforma l’energia del moto pulsionale, sottoponendo quest’ultimo a ripetizione, da energia libera in energia legata. L’operazione di legame della quantità pulsionale avviene, a mio avviso, mediante la fissazione del moto stesso alle esperienze con gli oggetti meta della pulsione. Ciò consente all’eccitamento pulsionale di trasformarsi in principio di piacere. L’applicazione ricorsiva della coazione di ripetizione all’esperienza connessa al principio di piacere permette poi a quest’ultimo di trasformarsi nella sua forma modificata, il principio di realtà. In questa seconda forma il piacere e l’esperienza ad esso connessa possono raggiungere l’Io, mentre la loro forma infantile viene conservata nell’inconscio rimosso che la coazione di ripetizione, mediante il suo stesso procedimento, contribuisce a costruire.

Ma in che modo possiamo ipotizzare una fisiologia della coazione di ripetizione a partire dalla sua forma originaria ed elementare? In che modo, cioè, essa opera la trasformazione del moto pulsionale in principio di piacere?

 

Pulsioni e coazioni 

Le pulsioni, afferma Freud (1920), costituiscono una fonte di eccitamento interno rispetto al quale la psiche non dispone di uno schermo antistimolo; le fonti di tale eccitamento sono le forze che traendo origine dall’interno del corpo vengono trasmesse all’apparato psichico. Mancando uno schermo antistimolo interno si determina nella psiche una circolazione di forze, di un’energia (Freud 1895) libera che tende alla scarica. La coazione di ripetizione originaria determinerebbe una riduzione quantitativa dell’energia liberamente circolante mediante un’attività di legame, primario e secondario, dell’energia stessa.  Solo in seguito alla costruzione del legame primario e secondario, il principio di piacere e quello di realtà che ne è una forma modificata possono subentrare al funzionamento eccitatorio della pulsione.

La coazione di ripetizione originaria, quindi, funzionerebbe come un rudimentale schermo antistimolo interno. Nella sua forma fisiologica, cioè, la coazione di ripetizione costituirebbe un meccanismo di governo economico della spinta pulsionale che agirebbe prevalentemente sulla riduzione della quantità pulsionale generatasi a livello della fonte e della spinta della pulsione. Essa agirebbe, dunque, sulla radice corporea della pulsione, sulla sua fonte e spinta somatica. Anche a questo livello la riduzione quantitativa dello stimolo somatico avverrebbe legando l’energia libera del moto pulsionale. Questa operazione di legame, a mio avviso, può avvenire solo quando la coazione di ripetizione può rilevare la funzione dell’oggetto che soddisfa il bisogno. In ogni caso, la riduzione dello stimolo somatico operato dalla coazione di ripetizione permetterebbe infine alla pulsione di trasformarsi in principio di piacere/realtà, di psichicizzarsi, di divenire motore del funzionamento dell’apparato psichico. 

 

Coazione e rimozione

La psichicizzazione della pulsione, dunque, è legata alla riduzione degli stimoli eccitatori organici operata dalla coazione di ripetizione, riduzione che consente il formarsi di una rappresentanza psichica dello stimolo corporeo. Il costituirsi della rappresentanza psichica, poi, permette alla rimozione originaria di operare, agendo come controforza. Questo primo gioco pulsionale consente infine all’inconscio originario di costituirsi.  

Qualcosa di simile afferma Lacan (1959-1960) quando asserisce che il soggetto nasce morto alla vita. Nel pensiero di questo autore, a mio avviso, l’ordine simbolico assume una funzione simile a quella della rimozione originaria: il significante, l’ordine simbolico nel quale fin dalla nascita siamo immersi, incide la materia vivente del soggetto. Il soggetto, cioè, per entrare nel mondo dell’umano deve perdere la sua naturalità animale, deve operare la rimozione originaria dell’eccitamento corporeo per poterlo trasformare in desiderio, la cui specifica formazione e declinazione sarà al fondo della singolarità del soggetto.

 

Riassumendo

 Ripercorrendo dunque l’evoluzione nel corso del tempo del pensiero freudiano circa il concetto di coazione di ripetizione, credo di poter dire che tale concetto trova le sue origini nel fondamento economico del funzionamento psichico: la coazione di ripetizione gestisce quantità pulsionali. Tuttavia, in un primo momento della riflessione freudiana questa gestione riguarda soprattutto lo scambio quantità-qualità. Quando Freud, nel 1914, parla di una ripetizione che soppianta il recupero del ricordo e la sua verbalizzazione ha in mente, a mio avviso, un’economia di scambio della quantità pulsionale in qualità. Sappiamo infatti che Freud (1895) assegna proprio all’atto i segni di qualità poiché ipotizza che tali segni non siano altro che informazioni di scarica. La stessa associazione verbale non sarebbe altro che un’azione motoria specifica che perciò può sostituire l’atto inteso come azione nel senso stretto del termine. La ripetizione, dunque, come sostituto di un atto verbale connesso al recupero di un ricordo, assume in questo momento della teorizzazione freudiana il senso di un’economia di scambio tra quantità e qualità: la quantità pulsionale grazie all’atto motorio di parola o agito viene scambiata con una qualità e quindi assume un senso e un significato.

A partire dal 1920, Freud considererà la coazione di ripetizione come un meccanismo che consente una gestione puramente economica del moto pulsionale: l’atto verbale o agito in quanto tale non serve più allo scambio quantità-qualità, ma è inteso alla sola gestione quantitativa dell’ammontare pulsionale. Tale gestione prevede che la ripetizione sia messa al servizio della riduzione alla fonte della quantità pulsionale, coadiuvando in tal modo l’attivazione della rimozione originaria, una riduzione ottenuta mediante il legame primario e secondario della quantità energetica libera del moto pulsionale. L’operazione di legame, riducendo la quantità pulsionale, consente la trasformazione della pulsione in principio di piacere e nella sua forma modificata, il principio di realtà.

 

Dallo schermo antistimolo alla forza demoniaca

Come è noto, all’interno della teoria psicoanalitica, la patologia psichica viene considerata come una deviazione del funzionamento fisiologico dell’apparato psichico. Ne discende, dunque, che la coazione di ripetizione che osserviamo nella clinica debba essere, essa stessa, considerata come una deviazione in senso patologico della coazione di ripetizione fisiologica, originaria. La forma patologica della coazione di ripetizione, come afferma lo stesso Freud (1920), prende l’aspetto di una ripetizione demoniaca, la cui forza trae origine dal ripresentarsi immodificato della quantità pulsionale. L’elemento economico immodificato e immodificabile della spinta pulsionale determina, quindi, la direzione in senso estintivo della meta pulsionale, come se l’unica meta possibile per la pulsione fosse la scarica assoluta, la liquidazione di ogni possibile energia psichica, in questo senso mostrando la prevalenza della pulsione di morte in queste forme patologiche di coazione di ripetizione.

Ma cosa determina la deviazione in senso patologico della coazione di ripetizione? Seguendo Freud (1920), potremmo sostenere che è l’impossibilità a legare l’energia libera del moto pulsionale che condiziona la forma patologica della coazione di ripetizione. Ma come si forma il legame, cosa lega l’energia libera? Io credo che quest’ultimo interrogativo chiami in causa l’oggetto.

 

Oggetti e loro destini

Nella riflessione freudiana, l’oggetto è la parte più variabile della pulsione, non essendo direttamente legato ad essa. Esso viene momentaneamente collegato alla pulsione grazie a quelle caratteristiche che lo provvedono della condizione di rendere possibile il soddisfacimento pulsionale (Freud 1915). Tuttavia, nel 1922 Freud postulerà una sottocategoria di oggetti del tutto diversa: gli oggetti di importanza incomparabile, i genitori, la cui persistenza nell’intero arco della vita giustifica la presenza dell’inconscio e la formazione della soggettività mediante quelle identificazioni secondarie necessarie per dare alla soggettività stessa quella permanenza temporale che autorizza ogni soggetto all’uso del pronome personale “io” che resta tale nel corso del tempo e dei cambiamenti di vita.

Un duplice statuto dell’oggetto, dunque, in Freud: l’oggetto come parte assai variabile della pulsione, sostituibile e in fondo accessoria, e l’oggetto come elemento talmente importante e insostituibile da rendere necessaria la sua conservazione nell’inconscio per via di rimozione o nella soggettività per via di identificazione.

Ma la duplicità dello statuto dell’oggetto viene ripresa da Freud anche ad un altro livello.

Nel suo studio afasiologico, Freud (1891) evidenzia l’importanza della formazione della rappresentazione di oggetto relativamente alla comparsa del linguaggio. Egli sostiene che tale rappresentazione ha una natura prevalentemente percettiva: le sensazioni provenienti dall’esterno e raccolte dai vari recettori sensoriali vengono rilevate dalle terminazioni spinali e avviate verso la corteccia cerebrale, ricevendo in questo percorso altri apporti (mnestici, spaziali, etc.), per terminare infine in una percezione globale dell’oggetto nella quale i diversi stimoli sensoriali confluiscono non più in una condizione di registrazione punto a punto degli stimoli esterni ma in una forma meno specifica, più generale. Si tratta, comunque, pur sempre di una rappresentazione costituita su base fortemente percettiva. O di una percezione rappresentativa, a campione, del mondo esterno.

Nel saggio L’inconscio (Freud 1915) compare il concetto di rappresentazione di cosa che sostituisce in modo prevalente il termine di rappresentazione di oggetto. Perché questa sostituzione? Perché cambiare il nome di un concetto già piuttosto chiaro e definito? Ho pensato, allora, che il termine oggetto fosse un termine più determinato, più connotato percettivamente, “oggettivamente”, laddove la cosa è meno connotata in senso percettivo ed oggettivo e, perciò, più adatta a descrivere un processo rappresentativo che si sviluppa soprattutto intorno ad elementi affettivi generati nel rapporto con le figure parentali

Sono dunque le quantità affettive generatesi a seguito delle esperienze “oggettive” con le figure parentali che determinano la trasformazione della rappresentazione d’oggetto in rappresentazione di cosa. Quest’ultima viene conservata nell’inconscio in modo permanente proprio in quanto costituisce un modello per l’investimento dell’oggetto e per la gestione dell’affetto a partire da quel corredo affettivo che l’ha resa rappresentazione di cosa e non più rappresentazione di oggetto.

Per questo motivo, per la trasformazione del moto pulsionale in principio di piacere/realtà, è importante la risposta dell’oggetto. Essa contiene quegli elementi percettivi e oggettivi che confluiscono poi nella rappresentazione di oggetto. Ma contiene anche elementi affettivi che evocano nel soggetto una corrispondente quota di affetto. Il corredo affettivo della risposta dell’oggetto determinerà nel soggetto la formazione della rappresentazione di cosa. In tal modo la rappresentazione di oggetto, divenuta rappresentazione di cosa, funge da modello non solo rappresentativo degli investimenti, ma anche di gestione quantitativa della quota di affetto presente in ogni investimento. Questo modello viene utilizzato dalla coazione di ripetizione originaria per la gestione dell’ammontare quantitativo del moto pulsionale. L’oggetto, cioè, immette all’interno dei dati oggettivi della relazione, una quota di affetto che a sua volta evoca, organizza, la quota di affetto pulsionale del soggetto, le fornisce un tempo e un ritmo che riducono e rendono coerente il moto che, lasciato a sé, tenderebbe semplicemente ad un suo incremento e conseguentemente alla scarica. Di questa prima organizzazione dell’affetto si serve, secondo me, la coazione di ripetizione originaria.

Freud stesso (1895) ha assegnato una grande importanza alla risposta dell’oggetto per la costituzione della soddisfazione allucinatoria del desiderio e quindi per l’attivazione del principio di piacere: il Nebenmensh, l’adulto soccorritore, fornisce una risposta agli stati eccitatori interni che sorgono in rapporto ai bisogni che lo stato di inermità infantile non consente di soddisfare autonomamente. Se la risposta è adeguata l’esperienza di alleviamento del bisogno verrà fissata e darà luogo, quando l’eccitamento legato al bisogno si ripresenta, al soddisfacimento allucinatorio non più del bisogno da cui l’esperienza allucinatoria stessa allontana, ma del desiderio (di soddisfacimento) che sostituisce il bisogno. 

L’importanza di un’adeguata risposta dell’oggetto viene ribadita anche da Green (1993) che pure assegna all’oggetto un duplice statuto: quello di oggetto-garanzia e quello di oggetto-desiderante. L’oggetto-garanzia è l’oggetto esterno, l’oggetto “oggettivo”, primario, che dispensa le cure materne. Quando tale oggetto fornisce cure materne adeguate e quindi risposte adeguate, cioè, a mio avviso, affettivizzate, all’eccitamento legato al bisogno, l’allucinazione negativa può svolgere il suo lavoro che consiste nel negativizzare la presenza percettiva dell’oggetto-garanzia. In tal modo viene costruita quella struttura inquadrante dell’apparato psichico necessaria perché si possano attuare le produzioni allucinatorie e rappresentative rivolte alla soddisfazione non più del bisogno, ma del desiderio. L’oggetto-garanzia prende così la forma di oggetto-desiderante, meta di investimento libidico. Queste due forme dell’oggetto primario entrano entrambe nel montaggio pulsionale, l’oggetto-garanzia nella sua formulazione negativa operata dall’allucinazione negativa e dunque come precondizione necessaria all’ingresso nel montaggio pulsionale dell’oggetto-desiderante rievocato e rievocabile per via allucinatoria (positiva) o per via di rappresentazione.

Se però la risposta dell’oggetto primario, del Nebenmensch, non è adeguata il funzionamento dell’apparato psichico viene, in vario grado e modo, compromesso.

Più specificamente, per quanto riguarda la coazione di ripetizione originaria, una risposta inadeguata dell’oggetto primario, non fornendo un modello di gestione della quota di affetto, altera la sua capacità di gestione quantitativa dell’eccitamento pulsionale. L’eccesso eccitatorio permane immodificato e ciò determina l’impossibilità alla trasformazione della pulsione in principio di piacere/realtà. L’unica gestione possibile di un tale eccesso stimolatorio diviene, così, la scarica, l’estinzione del moto pulsionale. La coazione di ripetizione per ottemperare a questa gestione estintiva si propone nella sua variante patologica e prende l’aspetto di una forza demoniaca indomabile e incoercibile. La rimozione originaria del moto pulsionale, di conseguenza, non è più possibile e ciò determina la necessità per l’apparato psichico di mettere in moto altri meccanismi difensivi per tenere a bada, almeno in parte, l’eccesso eccitatorio.

Ne vorrei prendere in considerazione uno in particolare, l’indifferenza, per la sua capacità di condizionare la strutturazione della soggettività nella sua interezza. 

Dal punto di vista psicoanalitico, l’indifferenza, secondo me, funziona come meccanismo difensivo rivolto al controllo della quota di affetto legata alla rappresentazione dell’oggetto “di importanza incomparabile”, quell’oggetto che permane nell’inconscio come rappresentazione di cosa.

Ora, quando la risposta dell’oggetto primario al moto pulsionale è insoddisfacente la rappresentazione di cosa inconscia è corredata di una quantità affettiva eccessiva e instabile. Di conseguenza, la coazione di ripetizione originaria non può esplicare la sua funzione di gestione quantitativa della pulsione poiché non dispone di un modello di gestione dell’ammontare affettivo. Quindi anche l’intervento della rimozione originaria sulla quantità eccitatoria è poco efficace o instabile. Questa situazione ricade anche sulla rimozione secondaria e quindi sulla permanenza e sulla stabilità della stessa rappresentazione di cosa nell’inconscio. L’affetto, dunque, rischia sempre di irrompere nell’apparato psichico e questa irruzione non potendo essere trattata per via di rimozione deve essere trattata in altro modo. L’indifferenza è uno dei modi di trattamento dell’irruzione affettiva.  La componente affettiva, la quota quantitativa di affetto, della rappresentazione di cosa, generatasi intorno alla relazione primaria con le figure parentali e divenuta inconscia, diviene indifferente, consentendo così alla rappresentazione disaffettivizzata di permanere nell’inconscio. Gli antichi oggetti possono dunque essere investiti indicando la direzione dei futuri investimenti, ma solo in quanto rappresentazione, in un modo “spassionato”, privato di affetto. Ciò determina un’indifferenza affettiva generalizzata verso tutti gli aspetti della vita: le relazioni sbiadiscono e perdono significato, la vita lavorativa diviene scialba e ripetitiva, ogni interesse per persone, cose o attività diviene spento e routinario. Si determina così quella condizione antropologica dell’indifferenza per la quale ci si lascia trascinare dalla corrente della vita senza davvero viverla.

Nella clinica, l’indifferenza può costituire l’impronta patologica di alcune forme di coazione di ripetizione. Ma forse questa condizione è particolarmente rilevante anche nelle relazioni sociali contemporanee. Forse, la perdita di rilevanza degli “oggetti di importanza incomparabile” e con essi delle funzioni superegoiche (perdita che trova il suo riflesso nello sbiadimento dei garanti metasociali), la volatilità e inaffidabilità della risposta dell’adulto soccorritore, la sostituzione di molte funzioni dell’altro umano con le funzioni di dispositivi “artificiali”, sono al fondo di quest’uso difensivo dell’indifferenza.

Provo, perciò, a proporre qualche riflessione su questa questione a partire dalla clinica e da alcuni aspetti del legame sociale attuale. Riflessioni che preferisco proporre non in forma scritta ma in forma di dialogo sia per motivi di riservatezza, sia per motivi di “libere associazioni”.

 

Se vuoi leggere altro scritto da Gemma Zontini, visita il sito

del CVP

del CNP

e CBP

Seminario Intercentri CPF e CNP – Destini della Ripezione

LOCANDINA

goisis

“Noi imperfetti -Quando pensiamo di non farcela” di Pietro Roberto Goisis – Recensione di Teresa Lorito

Enrico Damiani Editore, 2024

Dall’ideale dell’io all’io possibile

Potremmo forse sintetizzare così il senso dell’ultimo lavoro, assai ricco e vasto, di Pietro Roberto Goisis. E, una volta tanto, al povero recensore vengono in aiuto, oltre la densità dello scritto, anche le immagini, che nel volume di Goisis non sembrano mera e vaga suggestione, bensì parte del significato. Succede infatti che nel retro della prima e dell’ultima di copertina si trovino due illustrazioni piuttosto interessanti. Attenzione! Piazzate nel retro di copertina le due figure non saltano agli occhi, vanno, in un certo senso, scoperte. Come dire, la conquista dell’imperfezione reclama le sue fatiche!

Si tratta di due figure (una maschile e una femminile, ma l’attribuzione di genere potrebbe tradire un pregiudizio cognitivo) che si suppongono guardarsi negli occhi, ma per quel che ne sappiamo potrebbero anche avere gli occhi chiusi, o chiusi nella prima illustrazione e aperti nella seconda…Il braccio della figura con i capelli lunghi avvolge la spalla dell’altro recando tra le mani un ago da cui si diparte un filo di colore rosso nella prima di copertina, blu nell’ultima. Le due illustrazioni sono corredate da alcune righe di testo. Peraltro, al povero recensore che, come l’autore traffica in libere associazioni di idee, parole, suoni e immagini, viene in mente che quello dal rosso al blu possa essere immaginato come un percorso che dal malessere, dal disagio, dal dolore, si avvia -faticosamente – verso il compromesso del benessere.

Noi imperfetti un po’ richiama e, in un certo senso ne è il prosieguo e l’allargamento, La stanza dei sogni che Goisis ha pubblicato nel 2021.

Là lo stile era più narrativo, qui più strutturato, come se l’autore avesse risposto a una urgenza sua e del lettore di dare sistematicità alle proprie riflessioni e alle proprie esperienze cliniche.

Ventisette capitoli più uno di ringraziamenti (non sottovalutate i ringraziamenti degli autori, non sono clausole di stile separate dal resto): il filo che li unisce l’abbiamo già incontrato, quel filo che da rosso diventa blu, il filo del cambiamento.

Il cambiamento positivo, ci dice Goisis, avviene all’interno delle relazioni che ci legano gli uni agli altri. “se stiamo bene con gli esseri umani e ci occupiamo di loro, stiamo bene anche noi” (pag. 45). La questione, tanto per cambiare, è complessa. Vengono in mente le scritture: “ama il prossimo tuo come te stesso” (Levitico, 19-18) e il commento che ne faceva Herman Hesse secondo cui il fondamento del precetto, il prius, sarebbe proprio l’amore per sé stessi. I due poli della questione si tengono e procedono assieme.

Procedono verso il punto d’arrivo della nostra crescita che si trova nella capacità di avere una buona interdipendenza, cioè, come chiarisce l’autore, “una relazione equidistante in cui entrambe le parti mantengono la propria autonomia mentre collaborano e si sostengono reciprocamente” (pag. 45). Se accettiamo la nostra vulnerabilità, essa può diventare il volano della nostra crescita.

In tutto il libro si percepisce l’interesse di Goisis per l’adolescenza che è dovuto naturalmente al suo lavoro con tanti di loro e ad una parte speciale della sua formazione. Ma il lettore percepirà anche che nel lavoro verso il cambiamento, nell’ottica che tutto il testo adotta e che vorrei chiamare di crescita sostenibile (rubando un concetto ad ambiti meno psicoanalitici), l’adolescenza può essere vista come punto di cerniera del nostro sviluppo come persone, momento cruciale della nostra esistenza e dei suoi esiti.

Non si può fare a meno di notare una caratteristica che a me appare come uno dei punti di forza del volume, cioè il fatto che ogni capitolo è, naturalmente, legato organicamente agli altri, ma può essere letto da sé, in autonomia, quasi il capitolo di un manuale.

Così, aprendo il libro a caso, per esempio a pag. 298, leggiamo che “Viviamo e tutti abbiamo contribuito a creare una società …  dove si stigmatizzano le debolezze e si sottovalutano le risorse”. La considerazione richiama gli psicoanalisti a dare “sufficiente valore ai punti di forza che ognuno possiede”, ma allude anche al cruciale rapporto tra società e patologie, tra sistemi di valori e lavoro del terapeuta. E qui potrebbe cominciare un’altra storia.

Non si può non accennare allo stile di scrittura che, a mio avviso, è al tempo stesso rigoroso, chiaro e estremamente coinvolgente come può accadere solo quando si è profondamente dentro la materia.

Cristina Saottini

“Buio in sala” 2024 – “Past Lives” – Commento di Cristina Saottini

Past Lives regia di Celine Song (2023)

Past Lives è l’opera prima della drammaturga e regista Celine Song, coreana, naturalizzata canadese che vive a New York, come la protagonista del film che è ampiamente autobiografico. Film che è ora in concorso con due candidature al premio Oscar, fra qualche giorno vedremo i risultati 

 

È un film delicato, tenero, quasi sognante, così apparentemente lineare nella sua struttura narrativa che lo scorrere delle azioni potrebbe, in fondo, essere riassunto in poche righe, nonostante i tre livelli temporali su cui è costruito.

Ed è anche un film molto coreano, fatto di sguardi, di silenzi, di emozioni più alluse che esplicite. Questo non sorprende chi, come me, ama i drama coreani i K-drama, (per gli appassionati cito Mr. Sunshine o Crash landing on you) in cui anche nelle più appassionate storie d’amore non c’è quasi contatto fisico e la capacità di attendere, di sublimare, di rinunciare, porta dentro alla passione un sensuale distacco malinconico. Il tema della perdita e della nostalgia per l’unione perduta, che si cerca ma che si pensa irrecuperabile, fa pensare alla Corea, nazione divisa in due geograficamente e da un gap culturale sempre più profondo, che fa della mancanza dell’altra metà una cifra emotiva centrale.

Nella misura in cui la sua complessità può essere condensata, il film riesce a rappresentare una storia personale marcata dalla Storia con la esse maiuscola, che riguarda anche noi, basti pensare alle separazioni migratorie, e ci suggerisce che non si può pensare a noi stessi se non dentro un tempo e storie che ci determinano e di cui spesso siamo solo parzialmente consapevoli.

Anche grazie a questo riesce a offrirci uno sguardo attento sull’amore e sul destino, sul rimpianto, sul domandarsi dove avrebbero potuto portarci scelte di vita diverse e sul riconoscere il vuoto lasciato nelle nostre vite dalla nostalgia per quelle possibili esistenze parallele che avremmo potuto vivere e che non stiamo vivendo, anche quando siamo convinti delle nostre scelte.

 

Prenderlo per un film sentimentale, una riedizione elegantemente orientale del triangolo amoroso farebbe un grande torto alla sua ricchezza. È un film in cui niente è lasciato al caso, l’eleganza della fotografia e la particolare scansione dei tempi e delle geografie, permette di entrare in una dimensione estetica che mette il controluce in primo piano, la storia sentimentale è usata come una metafora dei cambiamenti che bisogna affrontare per ritrovare la propria identità e unicità.

 

Racconta dell’amore per la vita, per la sua forza, la sua complessità che richiede continue trasformazioni, incontri tra culture, perdite e ritrovamenti e ci parla del mistero che c’è in ogni relazione, della dolente consapevolezza che anche chi ci è più intimo rimane in parte sconosciuto e che per questo possiamo amare veramente solo se non esercitiamo un possesso ma rispettiamo l’altrui alterità. Così Arthur sente sconosciuta Nora, che pure gli è così vicina e intima, perché nel sonno parla coreano, ma questa diversità è anche una fonte del loro legame.

È sorprendente la capacità della regista di renderci visivamente la differenza tra l’individualismo occidentale, in cui il soggetto è eroe della scena e lo inyun, l’orientale esperienza che il destino è reciproca connessione e i legami vanno oltre la volontà individuale, ci trascendono e sono espressione del tutto di cui siamo parte.

 

Proverò ad andare con ordine:

La prima sequenza porta immediatamente lo spettatore al centro della storia, ci chiede di immedesimarci e di fare nostra la domanda: chi sono? Loro? Noi? Lo fa disegnando una scena in cui c’è contemporaneamente intimità e estraneità senza che si possa distinguere chiaramente chi è l’intimo chi è l’estraneo. Le voci fuori campo si interrogano: Chi è lo straniero in questo terzetto? La protagonista guarda la macchina da presa nella muta e toccante domanda, a noi che guardiamo, di entrare e partecipare a quanto sta avvenendo.

 

All’inizio Na Young e Hae Sung bambini fanno parte dello stesso mondo, sono i più bravi della classe, anzi la più brava è lei che piange sempre quando lui la supera, è competitiva e un po’ piagnona, una prima della classe, vuole vincere il Nobel e a lui piace per questa sua forza e testarda ambizione.

 

Prima della partenza della famiglia per il Canada, la madre di Na Young organizza una giornata per i due bambini, lo fa per darle dei bei ricordi che l’accompagnino nella partenza. La conoscenza tra i due bambini diventa familiare alle soglie della separazione, proprio perché a Hae Sung è affidato il compito di incarnare ciò che stanno perdendo, l’oggetto nostalgico diremmo noi. Il loro gioco nel parco è un continuo cercarsi, ti vedo e non ti vedo, perdersi e ritrovarsi nelle due statue di volti umani che si fronteggiano.

Ma anche nel momento della loro definitiva separazione in Na Young non c’è apparente tristezza è decisa a partire, a scegliere il proprio nuovo nome che sarà l’occidentale Nora. Così sua madre che dice “Se lasci qualcosa dietro di te, guadagni anche qualcosa”.

Chi parte deve essere determinato a lasciare qualcosa dietro di sé, il più acuto senso di perdita tocca a chi resta: c’è un’inquadratura in particolare, in cui mentre tornano a casa il bambino guarda protettivo e malinconico fuori dal finestrino dell’auto, mentre la bambina si è addormentata sulla sua spalla. Un tenero fiducioso contatto fisico, non così scontato nella cultura coreana, che prelude a una perdita per entrambi, non solo perdita dell’amico prediletto dell’infanzia ma anche perdita di una parte di sé stessi.

Dopo 12 anni si ritrovano via chat, ancora una volta riconoscono l’antica sintonia giocata tra la dinamicità ambiziosa di Nora e la tenace arrendevolezza di Hae Sung.

È ancora lei che decide di interrompere le loro chat che la inteneriscono ma la frenano: il suo progetto di vita ha la precedenza, deve seguire il proprio destino e si dà una mossa: Deve diventare una scrittrice non può coltivare nostalgie malinconiche. Per guadagnare qualcosa devi lasciare qualcosa dietro di te.

Passano ancora 12 anni, adesso ne hanno 36, sono adulti e Hae Sung decide di andare a New York per incontrarla. La sua vita è ancora poco definita, un po’ impantanata, una fidanzata che non riesce a sposare perché non guadagna abbastanza. Tradizioni che si trascinano senza un vero senso e capacità di scegliere. Cosa cerca nell’incontro? Certo la sua adorabile amica dell’infanzia, ma di quella ragazza ricorda e ama, come poi le dirà, la determinazione, l’ambizione, il coraggio di sognare e di partire. Sono forse queste caratteristiche di cui l’ingegnere, accomodato in una vita di abitudini confortevoli ma spente, è nuovamente alla ricerca?

E cosa cerca Nora in questo incontro? Nei loro tre giorni insieme Nora è mostrata sempre caparbiamente sorridente, molto “wow”, come dice insistentemente nel loro primo incontro. Scorrono le immagini del suo rapporto con Arthur, della casa vuota in cui si sono conosciuti mettendo insieme i loro interessi e le loro solitudini, della loro sintonia nel fare progetti, della loro amorosa armonia. Sono due newyorkesi giovani e arrivati, capaci di affrontare insieme la vita.

Cosa le manca? Cosa vuole ritrovare? Lui è così coreano, dice, mentre lei non lo è quasi più, eppure quando è con lui lo ridiventa, come non lo era da tanto tempo. Forse è questo che vuole ritrovare, un lutto mai veramente fatto per un mondo lasciato troppo di corsa, con troppo entusiasmo, con bei ricordi come la mamma chiedeva, forse mai pianto?

È significativa la scena del loro primo abbraccio, Nora lo stringe con calore mentre Hae Sung sembra di legno e solo dopo un po’ vince l’imbarazzo e risponde. Come dicevo in Corea non ci si abbraccia!

Scena molto diversa dal reciproco tenerissimo affettuoso abbraccio prima dell’addio, segno che si sono ritrovati, ciascuno ha ritrovato l’altro e, contemporaneamente, quella parte di sé così viva nell’infanzia che la separazione aveva congelato.

E Nora tornando a casa, può ritrovare tra le braccia di Arthur quel pianto che da bambina in Corea le era così famigliare e che la Nora newyorkese sembrava aver dimenticato, come la regista magistralmente ci fa capire con le inquadrature della protagonista sempre deliziosamente sorridenti.

L’incontro ha fatto ritrovare a entrambi quello che sembrava perduto quando avevano dovuto lasciare andare quel reciproco rispecchiamento che era il perno e il senso del loro giovane amore.   

Lo vediamo bene in Nora/Celine che ritrova il suo pianto e la voglia di confrontarsi con la complessità delle sue due appartenenze. Se il frutto è questo film mi sembra proprio che ci sia riuscita. 

E Hae Sung ci lascia, ancora una volta sull’auto, come da bambino guarda fuori dal finestrino serio e concentrato. Stavolta è da solo e lo sguardo della regista lo avvolge di affetto e insieme ci dice, ancora una volta, che anche chi sentiamo più vicino resta altro da noi, non lo possediamo e amore è anche riconoscere che in questo sta il senso vero dell’intimità.

 

 

 

Misericordia

“Buio in sala” 2024 – “Misericordia” – Commento di Anna Cordioli

Misericordia.

È con questa parola -scritta sulla fiancata di un’auto- che si chiude il bellissimo e omonimo film di Emma Dante.

 

IL LUOGO DELLE ORIGINI

“Misericordia” si apre con un uomo che prende a botte una donna incinta. Attorno non c’è nessuno che possa salvarla, solo una natura potente fatta di grotte arse e del mare che attende nuovi naufragi.

Un attimo dopo sentiamo il pianto di un neonato, abbandonato in una nicchia della roccia. È orfano. Nessuno ce lo spiega ma lo sappiamo. È solo e nudo, gettato in questo mondo, senza alcuna tutela. Solo una pecora sente il suo pianto e cerca di soccorrerlo. Questa immagine sembra rappresentare una sorta di presepio monco, solo una pecora e il bambinello, un presepio degli orfani.

È dunque questa l’origine, tragica, quasi mitologica, di Arturo, che rincontriamo, già grade, mentre corre accompagnato da gregge del pastore. Ci accorgiamo subito che Arturo è diverso agli altri bambini. Non solo perché è molto più vecchio di loro ma perché la sua mente è di gran lunga più infantile. Una bambina lo aiuta a vestirsi: prima un piede, poi l’altro, poi tira su i pantaloni.

Arturo non è autosufficiente. Sorride, corre, è felice, ha paura, si confonde, non parla… gira su se stesso come un derviscio incantato.

Arturo è ancora indifeso come nella prima scena della sua vita. A salvarlo erano state le persone di un borgo fatiscente, una favela in riva al mare. Le case sono catapecchie di una povertà post-industriale e l’economia del posto si basa sulla prostituzione. Arturo è stato adottato da tre puttane (come  dice schiettamente E. Dante): loro lo nutrono, lo lavano e lo fanno uscire dal postribolo quando arrivano i clienti.

Il villaggio sembra abitato solo da donne in vendita, rassegnate a quella vita, da uomini maceri e da bambini dai capelli annodati. Ripensando a tutto questo, non posso non pesare alla canzone “Anima latina” di Battisti.

Scende ruzzolando

Dai tetti di lamiera

Indugiando sulla scritta

“Bevi Coca Cola”.

 

Scende dai presepi vivi

Appena giunge sera

Quando musica e miseria

Diventan cosa sola.

 

La gioia della vita

La vita dentro agli occhi dei bambini denutriti

Allegramente malvestiti

Che nessun detersivo potente può aver veramente sbiaditi

 

Quel borgo schifoso è lo sfondo perfetto per narrare questa non-storia, in cui tutto sembra gridare che la vita non ha necessariamente un senso ma che comunque si lotta per vivere. E poi, tra loro, c’è Arturo…

Presentati i personaggi, la storia rallenta tutta d’un colpo ed è qui che, per quanto mi riguarda, si compie il vero miracolo del cinema: appare la verità, senza orpelli, senza sconti e anche senza false speranze.

 

Per raccontare di questo miracolo, però, devo uscire dal film e spiegare perché ho scelto di presentare, per “Buio in Sala”, proprio questo film di Emma Dante.

Dottoressa a lei piacerà” mi aveva detto una paziente in seduta “l’attore che interpreta Arturo… è puro corpo”. Aveva ragione.

Non avevo mai visto una interpretazione così fedele alla realtà di questo tipo di esistenza. Qualcuno ha detto che il personaggio di Arturo è autistico, altri che ha un ritardo mentale grave; nel film non ci viene svelato, perché non è la diagnosi la questione importante del film ma è come si vive accanto ad Arturo.

Nella mia vita ho avuto la sorte di lavorare in un progetto di sostegno psicologico a famiglie con minori con autismo grave o “da innesto”, come si diceva una volta, ovvero quei casi in cui la difesa autistica si struttura precocemente ma a partire da una patologia fisica o da una sofferenza estrema.

Ho avuto l’onore (perché questo è) di essere accolta nelle case, e nelle famiglie, per fare interventi in domiciliare. Ho incontrato famiglie che fronteggiavano crisi pantoclastiche, tra la cucina e il salotto; notti passate svegli a turno, corse a scuola perché “il bambino non può stare”. Ho conosciuto il modo in cui cambiano i mobili di casa e le abitudini di tutti, il modo in cui i fratelli diventano, volenti o nolenti, care giver già da piccoli. Guardando “Misericordia” riconoscevo ogni piccolo dettaglio: i pannoloni a portata di mano, le prassi della cura, la stanchezza e l’amore arrabbiato.

Nessuno vuole davvero sapere come è la quotidianità di una famiglia che vive con questo tipo di pazienti, specie quando diventano grandi. E forse anche per questo ho veramente apprezzato il lavoro di Emma Dante, che non sceglie un contesto reale ma crea attorno ad Arturo uno scenario quasi da mitologia primordiale.

Questo permette allo spettatore di prendere una minima distanza dalla scena e fare molta più attenzione ai dettagli del corpo e della relazione tra Arturo e le sue madri.

 

IL CORPO

Non ho visto mai nessuno usare il corpo come fa Simone Zambelli, che interpreta Arturo. Non esagero se dico che dovrebbe essere insignito del più alto riconoscimento che un attore possa ricevere. Non credo esista fatica più grande per un interprete che togliere dal proprio corpo ogni memoria di sé… ogni memoria di sguardo su di sé.

Arturo inizia la sua vita senza lo sguardo della madre, abbandonato su uno sperone, lasciato a se stesso per un tempo lunghissimo.

Lemma (2011) scrive: “L’importanza della precoce relazione di sguardi e del contatto epidermico tra madre e bambino non è mai enfatizzato abbastanza. Il contatto e la visione sono inseparabili, uno stesso asse che percorre le esperienze fisiche precoci. […] Queste prime esperienze corporee e sensoriali con gli altri sono inscritte somaticamente e gettano le fondamenta per lo sviluppo del Sé corporeo, e quindi del Sé”.

Arturo non ha potuto interiorizzare un’immagine corporea di sé. Il suo è un corpo pre-riflessivo, a tratti meccanico, a tratti sconosciuto.

L’attore e la regista ci mostrano i gesti di un ragazzo con stereotipie, con crisi cloniche notturne, incapace di trattenere pipì e cacca, che si morde le mani, che si pietrifica, che si masturba ignaro di ciò che fa. Noi vediamo Arturo in ogni sua posa al punto che lo riconosciamo anche nelle scene in cui è distante.

Arturo non ha vergogna, non ha malizia, non ha intenzione. Però ha paura, ha gioia e ha tenerezza.

Mi sono chiesta quanta intima conoscenza Zambelli e la Dante abbiamo sviluppato di loro stessi e del personaggio di Arturo, per rappresentarlo in una maniera così reale. A tratti il film mi è parso quasi documentaristico, sicuramente rivelatore per chi non immagina la quotidianità che si vive assieme ad un ragazzo con grave ritardo e dai tratti autistici.

Spesso Arturo si accompagna alle pecore, con cui gioca, che accarezza dolcemente e da cui si sente protetto. Mi viene in mente Temple Grandin, persona autistica che ha saputo scrivere la propria esperienza di vita, quando affermava “Ero come un piccolo animale selvatico” (1995) e racconta che il suo talento era la capacità di vedere il mondo dal punto di vista di una vacca. In un altro suo libro, “La macchina degli abbracci”, racconta come il contatto che il bestiame ha dentro al branco fosse per lei piacevole, quanto per loro.

Anche per Arturo quel contatto senza pensieri (umani) è rilassante e foriero di felicità immediata.

Egli stesso sembra un agnello imbelle di fronte alle crudeltà che gli girano attorno.

 

LE MADRI

Il bambino viene cresciuto da due prostitute che vivono assieme e sembrano essersi divisi i ruoli.

Una è una donna corpulenta, dolce ed affettuosa. Vediamo il suo corpo nudo, con le forme di una venere preistorica. È un corpo ampio come un continente, che si fa casa di abbracci e bisogni primari. Lavora la lana, grande passione di Arturo, e intreccia per lui maglioni e vestiti.

L’altra è secca e dura. Lo lava e ha a che fare con i suoi escrementi. È la madre che usa la parola per cercare di esprimere i suoi sentimenti: tanto il bene che gli vuole, quanto il male. Dirà, in un passaggio, tutta la sua disperazione per dover accudire questo ragazzo che non sa fare nulla senza di loro. Talvolta la notte pensa che basterebbe un cuscino per soffocarlo, che lo vorrebbe riempire di baci e morsi. Non gli farebbe mai del male ma ha bisogno di esprimere quella disperazione.

Ho molto amato questa madre che sa toccare ed esprimere le parti “fecali” della relazione, che lo perde in un momento di disattenzione e poi si dispera. È una madre reale, come molte che ho conosciuto, bisognose di poter trovare qualcuno che possa anche accogliere la loro esasperazione, senza giudicarle e senza pensare che non sappiano amare i loro figli.

A queste due madri iniziali, si aggiungerà una giovane prostituta, che avrà con Arturo un rapporto di vicinanza dolce e senza malizia ma comunque capace di riconoscerlo nei suoi slanci di tenerissima amorosità e anche il bisogno di masturbarsi.

Messe assieme queste tre donne diversissime, concorrono alla crescita di Arturo. Sono le tre Parche che filano la vita: una districa i bisogni primari, una intreccia i sogni d’amore, l’altra si chiede quando servirà tagliare il cordone che lo lega a loro.

A lungo si dibatte se Arturo non starebbe meglio via da quel borgo fatiscente. Saranno infine le aggressioni  continue del mostro Polifemo, padre di Arturo e padrone delle prostitute, a far scegliere per allontanare il ragazzo.

 

L’INAUDITO E LA MISERICORDIA

La storia contenuta in questo film è la storia di un mondo inaudito, pieno di violenza sessualità e candore, che esiste lontano dalla società. Queste vite sono vite rotolate ai margini di tutto, senza ormai alcuna prospettiva, impegnate con fatica estrema a sopravvivere. Amo molto il concetto di inaudito, significa “non udito”:

“È “inaudita” una assoluta novità (come l’incontro con una alterità che ci è ancora aliena) ma molto spesso è “inaudito” ciò che è stato precocemente rimosso e che la coscienza non vuole rincontrare.  Usiamo, infatti, questo aggettivo nella sua accezione di scandalo e di rifiuto per qualcosa.” (Cordioli 2024, 270)

In Misericordia esiste un “inaudito morale”, che ci si presenta nei corpi sfruttati delle donne e nella violenza sudicia del mostro Polifemo; c’è un “inaudito per effetto del rimosso”, che è ad esempio il desiderio mai nominato di potersi affrancare da tutto quel dolore: ascoltarlo sarebbe troppo doloroso per cui resta nascosto; e infine c’è un “inaudito del non ancora rappresentato” che è Arturo stesso col suo corpo percorso da frastuoni che non possono trovare ascolto perché non sono ancora un messaggio udibile.

Ma come si può ascoltare, dunque, tutto questo stratificarsi di patimenti e di vite?

Il film di Emma Dante non fa sconti ma non per questo diviene crudele, né coi suoi personaggi né con lo spettatore. Fin da subito, fin dalla baia primordiale in cui tutto si svolge, veniamo tutti trasportati in un luogo minimo comune. Ci troviamo tutti assieme, mentre la Dante smonta ogni sovrastruttura e ogni scusa. Restano solo il linguaggio ancestrale del mito e il travaglio dell’animale uomo.

È in questa riduzione ai minimi termini che avviene l’incontro con un sentimento di disarmato affetto per Arturo, per le sue tre madri puttane, per i bambini lerci, per le pecore alla tosa. Anche il mostro evoca più miseria che odio. Ed è lì che si coglie il significato finale della parola misericordia: provare compassione dentro nel cuore.

Non è sufficiente la com-passione: la Dante, si insinua davvero nel cuore dello spettatore, ci fa sentire come nostro un dolore che non abbiamo mai provato o che abbiamo solo sfiorato. Non lo fa attraverso lo svolgersi di una fitta trama di eventi, ma inducendoci ad ascoltare l’inaudito, gesto dopo gesto. Contatto dopo contatto.

Certo è che “Misericordia” scava e lavora nello spettatore anche per giorni dopo la fine dell’ultima scena.

 

INFINE

Prima della proiezione abbiamo potuto vedere un videomessaggio inviato da Emma Dante agli spettatori di “Buio in Sala”, con un ringraziamento a chi torna nelle sale e per aver voluto vedere un film “Forse imperfetto” ma, aggiungo io,  realizzato con grande ispirazione.

Voglio ringraziare Stefania Nicasi, Vincenza Quattrocchi, Rossella Vaccaro (Centro Psicoanalitico di Firenze) e Michele Crocchiola (Fondazione Stensen, Cinema Astra) per avermi accordato di guardare assieme “Misericordia” perché sono consapevole di aver proposto un film che non è fatto per intrattenere né per ammaliare. Forse per questo, in pochi hanno puntato su di esso ed è stato ritirato dalle sale prima che potesse iniziare il passa parola.

Ritengo che il nostro compito di analisti sia anche quello di non far cadere nel rimosso e nell’oblio, messaggi inauditi e bellissimi come quelli contenuti in “Misericordia”.

 

Bibliografia

Cordioli A., (2023) ”L’inaudito e l’arcobaleno. Trasformazioni di un’analista durante un viaggio nella musica queer.”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 266-318

Grandin  T. (1995) “Pensare in immagini e altre testimonianze della mia vita di autistica.” Tr. It.: Trento, Erikson, 2001

Lemma A. (2005) “Sotto la pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee”, Raffaello Cortina, Milano, 2011

Montagnini M. (2022) “Autobiografie autistiche”, Centro Veneto di Psicoanalisi,  https://www.centrovenetodipsicoanalisi.it/biografie-di-persone-autistiche/

Caftano blu

“Buio in Sala” 2024 – “Il Caftano Blu” – Commento di Irene Ruggiero

Il caftano blu, il secondo lungometraggio della regista e sceneggiatrice marocchina Maryam Touzani, racconta una storia ambientata nella bottega tradizionale nella quale il malem (maestro) Halim (Saleh Bakri) confeziona e ricama il caftano, l’antica veste musulmana di origine persiana, mentre la moglie Mina (Lubna Azabal) si occupa del rapporto con i clienti. Mina sembra gestire quasi ogni aspetto della vita della coppia, in casa come in negozio, mentre Halim appare quasi sottomesso. Tuttavia Mina valorizza profondamente le qualità del marito, il suo amore per il dettaglio e la sua passione per la bellezza. La loro relazione, intessuta di abitudini costruite negli anni, fatta di lunghi silenzi, scarne parole, piccoli gesti e profondi sguardi densi di comunicatività, è attraversata anche da momenti di allegria e divertimento (particolarmente espressiva è la scena in cui Mina mima la cliente altezzosa ed esigente che non comprende la qualità del lavoro di Halim).

Halim e Mina sembrano inizialmente una coppia di mezza età come tante altre, ma ben presto lo scorrere della narrazione rivela che nel loro matrimonio c’è un non detto, qualche cosa che si sa ma di cui non si può parlare: l’omosessualità di Halim, che intrattiene fugaci incontri sessuali con altri uomini, probabilmente nell’accettazione silenziosa della moglie, con la quale Halim ha un rapporto molto solido, intessuto di profonda complicità.

Scopriamo poi che Mina ha una grave malattia, un tumore al seno, che rallenta i ritmi del lavoro fino a rendere indispensabile assumere un apprendista per soddisfare le pretese dei clienti più esigenti. Entra così in scena il giovane Youssef (Ayoub Missioui) che, con il suo carattere mite e la sua passione per il lavoro, attira subito l’attenzione di Halim. È attraverso i suoi occhi che lo spettatore intuisce con naturalezza la complessità del rapporto tra Halim e Mina e alcuni dei suoi aspetti più segreti.

 

A un livello di struttura narrativa di superficie, il film racconta la ben nota storia di un triangolo amoroso: lei, lui, l’altro. Con un’importante differenza: l’altro ama (ricambiato) lui e non lei. La storia è tuttavia molto più complessa.

Mentre entrambi, Mina e suo marito, scoprono la nascente attrazione tra Halim e Youssef, Mina (e Halim) diventano sempre più consapevoli della sua condizione terminale. La gravissima malattia di Mina svolge una sorta di funzione enzimatica che orienta il dipanarsi della vicenda.

Il film racconta tre forme di amore e di relazione diverse l’una dall’altra, che si intrecciano in un percorso che unisce Halim, Mina e Youssef e li trasforma profondamente, sia nel loro assetto psichico che nelle loro reciproche relazioni.

Mina è all’inizio tesa, irritabile, talvolta scorbutica. Appare molto preoccupata per gli affari e il denaro. Quando percepisce l’attrazione fra il marito e il giovane apprendista, allontana Youssef con una ingiusta accusa di furto. Il ragazzo subisce e non protesta. Halim, pur avendo probabilmente compreso che l’accusa è ingiusta, non lo fa notare alla moglie, anzi le è vicino in modo affettuoso e allegro. Progressivamente Mina si fa tuttavia sempre più dolce e comprensiva, e arriva a riconoscere l’ingiustizia inferta al ragazzo e a scusarsi con lui. Il suo animo muta gradualmente fino a intuire che l’amore del marito per il ragazzo potrà aiutarlo a vivere e a evolvere, fino a immaginare una sorta di ‘passaggio’ di amore fra lei e il ragazzo. La sua rinuncia a sottoporsi a ulteriori cure e lasciarsi morire, accudita dall’uomo che la ama ricambiato, diventa così anche un atto d’amore. Youssef non rompe una relazione solidissima, piuttosto ne raccoglie il testimone.

Halim appare sottomesso, ma si intuisce anche la forza insita nella sua pazienza e resilienza. Mina è per lui colei che ha riscattato un’infanzia infelice e svalorizzante (una madre morta prematuramente, un padre sprezzante forse perché aveva intuito l’omosessualità del figlio). Il suo modo di amare è la rinuncia alla sua vera natura, omosessuale, che vive in modo discreto e occultato, ma anche inevitabilmente triste e forse umiliante, nei bagni turchi maschili, con sconosciuti. Per non ferire Mina, Halim rinuncia a una parte autentica e fondante di sé. La sua trasformazione coincide con il coraggio di vivere, sempre con grande discrezione e gentilezza, e con il supporto affettuoso e comprensivo della moglie, il suo autentico amore per Youssef, abbandonando il sesso compulsivo e umiliante dei suoi rapporti segreti e nascosti.

Il film lascia intuire che Halim riuscirà a comporre dentro di sé sentimenti ambivalenti e drammaticamente contraddittori, quali il dolore per la perdita di Mina e la consapevolezza che la sua morte lo “libera” da un legame che, seppure lo abbia profondamente sostenuto fino a quel momento, costituisce anche un limite alla sua possibilità di riconoscere la sua propensione più autentica e non avere più “paura di amare”, come Mina stessa lo esorta a fare poco prima di morire.

Youssef si inserisce nella relazione di Mina e Halim dapprima in modo perturbante e disturbante, poi, man mano che ne percepisce le componenti più intime, con discrezione, rispetto e amore. Youssef incarna la capacità dell’attesa, il rispetto per i tempi e il silenzio dell’altro, la perseveranza del sentimento. È significativo che, in questa paziente attesa, lui diventi sempre più bravo ed esperto nell’arte di ricamare il caftano, giungendo a trasformare in bellezza il suo desiderio, e la sua attesa.

Le trasformazioni che attraversano i tre protagonisti trasformano Youssef da minaccia a potenziale risorsa, simbolo di una possibile evoluzione nel modo di concepire l’omosessualità, la bellezza e l’amore, liberato almeno in parte da pregiudizi conformistici. Mina, superando la gelosia e il senso di esclusione iniziale, giunge ad amare Youssef in quanto amore futuro di Halim, forse vivibile in un possibile futuro nel quale sia possibile accettare una relazione omosessuale senza nasconderla nei gabinetti dell’hammam. La scena che maggiormente comunica quanto sia profondo l’intreccio tra i tre personaggi è quella del ballo intrapreso da Mina, Halim e Youssef su una melodia marocchina coinvolgente che proviene dalla strada, con un gioco di sguardi che trasmette accettazione, amore e complicità.

Altrettanto libero nei confronti di tradizioni strutturanti ma troppo limitanti è il dono finale che Halim fa a Mina, che accompagna alla tomba rivestita del magnifico caftano blu che Mina amava tanto e che Halim (e in parte anche Youssef) aveva ricamato con tanta paziente perizia, anziché vestita dell’anonima tunica bianca prescritta dalla tradizione. Un caftano magnifico, del colore più pregiato di tutti, il blu, simbolo di una tradizione artigiana che va scomparendo, che va mantenuta ma trasformata per poter evolvere verso una libertà personale più autentica.

Così come i personaggi comunicano e si capiscono per gesti minimi, per movimenti impercettibili, la confezione del caftano è fatta di infiniti piccolissimi punti, ognuno indispensabile nella sua infinita minuzia.

Così, il caftano blu che Halim confeziona diventa, con la sua bellezza, il frutto e al tempo stesso il tramite dell’unione tra i tre protagonisti, arricchendo la storia di note sensoriali e sensuali.

Il caftano blu è un film nel quale i dettagli, anche i più minuti, appaiono fondamentali e capaci di impreziosire una storia apparentemente tradizionale. “Ormai nessuno è più capace di farli. Guarda i dettagli di questi ricami, la perfezione di queste curve… è ancora splendido come se fosse nuovo”, dice Halim a Youssef porgendogli un antico caftano. Come accade con i caftani preziosi che Halim ricama, che racchiudono la fatica, la pazienza e l’amore che la bellezza esige, solo chi sa prestare attenzione ai dettagli e si prende il tempo necessario per guardarli e apprezzarli, può scoprire che Mina e Halim condividono un amore che neanche la morte può cancellare.

Leggi anche la recensione di Adriana D’Arezzo

“Buio in Sala” – riprende la rassegna cinematografica invernale di Cinema e Psicoanalisi

Da giovedì 15 febbraio torna il ciclo invernale di Buio in sala, in collaborazione con la Fondazione Stensen.

 

Cinema Astra, Piazza Cesare Beccaria 9, Firenze (Tel. 340 4551859 – attivo negli orari di apertura del cinema).

Scarica il Programma

Giovedì 15 febbraio 

ore 20.30

Il Caftano Blu di Maryam Touzani (Marocco 2022, 122’) – versione originale sott. ita

con un commento di Irene Ruggiero (Centro Psicoanalitico di Bologna)

A Salé, una delle più antiche città del Marocco, in una piccola bottega dove i caftani si fanno ancora a mano, si svolge, punto dopo punto, la storia d’amore dei tre protagonisti. Non si tratta tuttavia del solito triangolo. A un livello più profondo questo film sartoriale intesse e ricama con cura tre diverse forme di amore attraverso le quali ciascun personaggio si trasforma ed evolve emotivamente.

 

Giovedì 22 febbraio

ore 20.30

Misericordia di Emma Dante (Italia 2023, 95’)

con un commento di Anna Cordioli (Centro Veneto di Psicoanalisi)

Misericordia è una danza che ruota fra abisso e salvezza. Arturo nasce nel più buio degrado e cresce girando su se stesso. Attorno a lui si raccoglierà la violenza degli orchi ma anche l’insperata rivolta delle donne della sua terra…madre. Emma Dante trasforma in film l’opera teatrale tornando a colpire con la sua potente forza espressiva.

 

Giovedì 29 febbraio 

ore 20.30

Perfect Days di Wim Wenders (Germania/Giappone 2023, 123’) – versione originale sott. ita

con un commento di Chiara Matteini (Centro Psicoanalitico di Firenze)

Il magico potere della ripetizione nell’ultimo capolavoro di Wim Wenders, profondo conoscitore della cultura giapponese e degli esseri umani. La verità viene cercata in superficie, umilmente: talvolta ne deriva una specie di felicità.

 

Giovedì 7 marzo 

ore 20.30

Past Lives di Celine Song (Usa 2023, 106’) – versione originale sott. ita

con un commento di Cristina Saottini (Centro Milanese di Psicoanalisi)

Un’attenta riflessione sulle tante sfaccettature dell’amore e sul rimpianto per le perdite imposte dalle trame del destino che non diventa amarezza, ma si traduce in ricchezza malinconica che scalda il cuore. Passato presente e futuro si intrecciano nelle vite dei protagonisti grazie alla maestria della regista coreano/canadese Celine Song che in questo film in parte autobiografico affronta con leggiadria il mistero dei legami amorosi e delle identità personali.

 

Sabato 9 marzo – Evento speciale Donna, vita, libertà

ore 15.00

Leila e i suoi fratelli di Saeed Roustayi (Iran 2022, 165’) – versione originale sott. ita

con un commento di Virginia De Micco (Centro Napoletano di Psicoanalisi) psicoanalista e antropologa

Leila trascorre la sua vita adulta aiutando i genitori e i suoi quattro fratelli. Un giorno escogita un piano che potrebbe aiutare la sua famiglia a uscire dalla miseria in cui vive, ma si dovrà scontrare con le miopie e le grettezze dei suoi familiari e con la crudeltà di una società che non le concede gli stessi diritti degli uomini.

 

Biglietto € 9,00

Ridotto soci CPF € 6,00 (acquistabile solo alla cassa del cinema)

Ridotto under 30 € 7,00 (acquistabile solo alla cassa del cinema)

Abbonamento 4 proiezioni serali € 24,00

presso Cinema Astra – Piazza Beccaria 9 – Firenze

Acquista i biglietti >>>

sandler

“Formulazione della psicoanalisi” di Cesar Sandler – presentazione del libro a cura di Luca Trabucco

Alpes, 2023

Mi sento particolarmente onorato e felice di poter introdurre la prima edizione in assoluto, non
solo in Italia, di questo volume di Paulo Cesar Sandler, ottavo di un’opera unica nel panorama
scientifico della psicoanalisi: A apreensão da realidade psíquica, che è un’opera nata dalle
discussioni di gruppi di studio che Paulo Sandler ha tenuto dal 1987 alla Sociedade Brasileira de
Psicanálise de São Paulo, anche su suggerimento di Meg Harris Williams, dei testi che aveva
previamente preparato, e che ha avuto uno sbocco editoriale grazie ad Imago Editora di Rio de
Janeiro, diretta da Jayme Salomão; un editore lungimirante, che già ebbe il merito non trascurabile
di pubblicare, primo ed allora unico al mondo, i primi due volumi di Memoria del futuro, di Wilfred
R. Bion.
I primi sette volumi sono stati pubblicati tra il 1997 e il 2003. Nel 2004 Imago ha avuto gravi
problemi finanziari, per cui l’attività editoriale subì un arresto. Così l’ottavo e nono volume della
serie non furono pubblicati, ma anche perché Sandler fu poi impegnato nella pubblicazione di altri
importanti volumi – The language of Bion, per esempio, fu pubblicato nel 2005.
In questa opera, nel suo insieme, Sandler ha “considerato l’ipotesi che la psicoanalisi abbia le
proprie origini nel riconoscimento di una necessità umana. Essendo una necessità, è implicito che
sia naturale. Tanto naturale quanto la necessità di alimentarsi, di bere, di un’igiene personale […]Di quale necessità stiamo parlando? Della necessità di conoscere, delle sue tecniche, e dei processi
attraverso cui si ottiene la conoscenza. Essa è tanto antica quanto l’umanità stessa. La distinzione
tra la conoscenza e i modi per ottenerla […] fu postulata da Kant, sebbene sia stata delineata da
Platone, Aristotele e Spinoza […] Scienza e arte si incontrano in quanto modi di apprensione della
realtà, sono metodi diversi per il medesimo scopo – essendo tuttavia l’arte il più antico” (Hegel e Klein, 2003, p. 17-19).
L’interesse di Sandler è la Conoscenza, la sua valenza emozionale, e il suo rapporto con la verità,
quella cosa che Bion ha definito semplicemente come l’elemento indispensabile per la crescita
mentale, e, conseguentemente, il νουσ, la mente che conosce se stessa; in termini attuali: la
psicoanalisi.

“Le conseguenze delle formulazioni di Bion sono di larga portata in quanto abbracciano
una grande area della “conoscenza” umana. Nello stesso tempo sono, simultaneamente, psicoanalitiche. Può essere che la descrizione di qualcosa che è di
base mostri una validità per diversi livelli di osservazione, dal livello microscopico
a quello macroscopico?” (Sandler, Introdução a Uma memoria do futuro de W.R.
Bion, 1988, p. 58).
Questo volume ha l’opportunità, grazie ad Alpes, a Roberto Ciarlantini, un altro editore
“illuminato”, di avere la possibilità di venire alla luce per la prima volta. E in questo volume ci si
confronta col pensiero di Schopenhauer, di Max Planck, e infine di Nietzsche, autori che
rappresentano la più prossima discendenza del pensiero di Freud, e che rappresentano coloro che
più di tutti hanno nel loro pensare conseguito una tolleranza del paradosso: poterlo considerare
senza avere la necessità di risolverlo.
Accanto a questi autori vengono anche presi in considerazione Brentano, di cui Freud fu anche
allievo, e il suo concetto di intenzionalità, che rimanda in modo diretto all’idea dell’Inconscio; e poi
von Hartmann, che del termine “Inconscio” potrebbe essere considerato il padre, anche se nel suo
pensiero manca poi nel cogliere il carattere precipuo dell’inconscio, sconosciuto, che viceversa
vorrebbe afferrare “razionalmente”.
Se dovessi indicare l’elemento che in questo volume più mi ha colpito, direi che Sandler ha saputo
individuare un aspetto del pensiero di Freud, come poi in quello di Bion, di “onestà” intellettuale,
che, fra le altre cose, implica un notevole controllo delle istanze narcisistiche: la capacità di
riconoscere che i conseguimenti della propria ricerca non debbano essere considerati come
“invenzioni”, ma solo come “scoperte”, e, in quanto tali, passibili di essere condivise con altri
ricercatori, che in modo indipendente, e magari per altre vie, giungono alle stesse conclusioni. Lo
scienziato è testimone di una verità, non gli si può ascrivere nessun merito “inventivo”. Tutto ciò
mi appare molto importante in relazione al panorama della psicoanalisi, in particolare quella
contemporanea, dove alcuni hanno la pretesa di inventare nuovi “parametri” che dovrebbero
soppiantare i “vecchi”; e ciò di solito avviene attraverso un processo molto semplice: con
malafede o semplice ignoranza o mancanza di consapevolezza, concetti basilari e consolidati
vengono “rinominati”, e spacciati come nuovi, invenzioni dell’ultima ora di un preteso “genio”.
Basta cambiare
l’etichetta, e la novità è fatta!
In Freud la consapevolezza delle affinità con il pensiero di Schopenhauer, Brentano e Nietzsche è
talvolta semplicemente riconosciuta, e nel caso dell’ultimo talmente presente alla sua mente, che
volontariamente ha evitato di conoscerla troppo bene per paura di lasciarsi condizionare nella sua ricerca. Ma l’onestà intellettuale sta proprio in questo riconoscimento, che per forza due (o più)
menti ben educate e rispettose della verità, non possono che convergere in un risultato comune,
dato dalla verità a cui esse si riferiscono.
Si tratta di una visione Transdisciplinare, quella che Sandler utilizza nel suo lavoro. La
transdisciplinarità è cosa diversa dalla “interdisciplinarità”, dove ognuno porta una visione
aderente al proprio ambito coi suoi modelli; nella transdisciplinarità si cercano le modalità comuni
che esprimono una attività di base comune al di sotto di ogni ambito o modello, che viene
ritrovata in ogni passo del procedere umano verso l’apprensione della realtà, materiale e psichica,
nei vari ambiti in cui questa “pulsione epistemofilica” si esprime: nella filosofia, nell’arte, nella
matematica, nella fisica, ecc.
Il rispetto per la verità di cui progressivamente si può fare apprensione implica una profonda
consapevolezza della inesauribilità del processo che contraddistingue l’essere dell’uomo, ovvero
della irriducibilità dell’Inconscio – Unbewüsst, non conosciuto – che si sostanzia nella
fondamentale natura Paradossale della nostra condizione.
Il pensiero degli autori qui considerati, rappresenta per Paulo Sandler, l’humus del pensare
psicoanalitico.

cura psicoanalitica

L’unità psiche-soma nella cura psicoanalitica di Maurizio Stangalino – Recensione di Maria Pappa

La vita, la morte, il divenire

(FrancoAngeli ed., 2023)

Il libro “L’unità psiche-soma nella cura psicoanalitica. La vita, la morte, il divenire”, di Maurizio Stangalino, ci offre una ricca e preziosa esplorazione psicoanalitica di problematiche che incontriamo sempre più frequentemente nella clinica contemporanea, sulle quali siamo chiamati a interrogarci, che rendono necessario un ampliamento delle nostre visioni teoriche e un’estensione delle nostre conoscenze ad altri ambiti, tra i quali quelli della fisica, della neurobiologia, della neurofisiologia, e delle neuroscienze. L’Autore parte da una riflessione e da una preoccupazione riguardanti la condizione di quei soggetti, spesso giovani, attraversati da una tendenza all’auto-annientamento, con un’estrema difficoltà a sentirsi vivi. “I pazienti a cui ci si riferisce sembrano avere affrontato, nelle loro iniziali esistenze, una circostanza acuta e protratta di non-vita psichica, nel senso di una assenza o insufficiente apporto di un essere umano (genitore o suo sostituto), in grado di alleviare l’angoscia primaria e di innescare una indispensabile scintilla vitale” (p. 17). Si fa largo l’ipotesi che laddove manchino indispensabili condizioni iniziali e si verifichino invece circostanze traumatiche, possa attivarsi un nucleo latente e invisibile di auto-distruttività, che va a intaccare il “soffio vitale”, la propensione alla vita, in altre parole la pulsione di vita. In questi casi in cui la pulsione di morte non risulta più sufficientemente “legata” e compensata dalla pulsione di vita, si può avere una vasta gamma di espressioni sintomatiche: da un piano solamente rappresentativo e simbolico, nelle fantasie del sogno notturno e diurno, alla canalizzazione somatica, fino ai passaggi all’atto sotto forma di “suicidio mascherato”, e allo sviluppo di gravi psicopatologie, come ad esempio depressioni gravi, psicosi, stati borderline, anoressie, perversioni e dipendenze di vario tipo.  Come evidenzia Anna Ferruta nella sua prefazione al libro, a contatto con queste situazioni, il vissuto controtransferale dell’analista può essere particolarmente impegnativo e difficile, implicando anche un livello somatico di proiezioni, e affetti non simbolizzabili. L’analista si trova immerso in un’atmosfera oscura, in cui il soggetto comunica l’impressione di un lento declinare dell’Essere, dello scivolare verso una “morte psichica”, che talvolta può portare addirittura verso una morte reale. Nell’indagare le dinamiche intrapsichiche e relazionali che caratterizzano tali evenienze, nella prospettiva di una cura psicoanalitica,  Stangalino  mette in luce quanto sia fondamentale l’apporto della psicoanalisi infantile per la psicoanalisi tutta,  e quanto sia indispensabile il riferimento a modelli teorici, come quelli di Bion e di Winnicott che diano la dovuta importanza all’ambiente e alle figure di accudimento nell’assetto mentale dello psicoanalista. L’Autore dà risalto al ruolo centrale dell’Altro per divenire mentalmente vivi, alla centralità della relazione per ogni essere vivente, in particolare quella madre-bambino. Il fulcro del libro è dunque rappresentato da una attenta e fine ricerca sulle origini del funzionamento psichico nella sua essenza di unità psiche-soma e sui successivi sviluppi, in relazione alle interazioni con l’ambiente interno-esterno. Nel cercare di comprendere l’insorgenza e le dinamiche delle varie forme di malessere che incontriamo nella modernità, l’Autore scandaglia la dimensione della relazione primaria e i modi con cui la mente emerge dal corpo, in un’interazione strutturale mente-corpo, Io-Altro, riconducendo le sue profonde osservazioni alle più aggiornate teorie della fisica quantistica, delle neuroscienze, oltre che della psicoanalisi. Per quanto riguarda quest’ultima, prendendo le mosse dal pensiero freudiano, Stangalino si concentra soprattutto sullo scritto Al di là del principio di piacere (1920), e sulla dialettica tra pulsione di vita e pulsione di morte. A questo proposito egli propone punti di vista diversi, che risentono delle più recenti acquisizioni fornite dalla fisica del non equilibrio; dalla neurobiologia, dalla neurofisiologia; dalla psicoanalisi, con gli sviluppi postfreudiani bioniani (1965, 1974, 1977). Questi ultimi concepiscono nel contesto relazionale la base per lo sviluppo di pulsioni di vita, e nella barriera di contatto uno strumento di continuo passaggio tra conscio e inconscio, corpo e mente, Io e Altro, presupposto per il costituirsi di equilibri fluttuanti e vitali. Sempre secondo questo orientamento, al contrario, l’isolamento porta alla non vita e al divenire preda della pulsione di morte. La dialettica tra pulsione di vita e pulsione di morte viene descritta da Stangalino come una dinamica tra attrattori, tra stati mentali diversi emergenti da una matrice biologica. Il bambino, per sviluppare il suo psichismo, necessita di un altro, la madre, che accolga e gli invii i segnali della pulsione di vita come attrattore, contrastando così l’attrattore di morte, che spinge verso l’isolamento e l’autoannullamento. Laddove nel corso dello sviluppo prevalga l’attrattore/pulsione di morte, analogamente a quanto accade in biologia con l’apoptosi, la morte cellulare, l’isolamento, la disregolazione affettiva e del legame, portano a seguire il piano inclinato del non investimento, del decadimento, indicato con il termine alloiosi. Allora è come se ci fosse una “invisibile ‘guida’ del destino individuale verso la distruttività, o addirittura l’autoannientamento, verso il Nulla” (p. 14). Nell’ottica winnicottiana è l’incontro tra la mente materna e quella del bambino che genera la dinamica “illusoria” tra ciò che viene percepito e ciò che viene soggettivamente creato, e la modalità di funzionamento ludico, che favorisce la crescita del mondo psichico del soggetto attraverso processi autopietici (Winnicott, 1971). Dobbiamo immaginare il delicato processo di transizione verso l’acquisizione dell’esperienza “soggettiva” di un Sé nascente, “con una membrana che lo limita, un interno e un esterno” (Ferruta, 2021), come un processo di graduale accettazione della realtà esterna riconosciuta come non-me , differenziandola da quella interna. La dimensione creativa dell’area transizionale, per Stangalino, apre a degli interessanti risvolti nell’ambito della fisica dei sistemi complessi e delle particelle elementari: “Una dimensione ‘potenziale’, un campo di esperienza aperto e con frontiere (ancora) indefinite, in cui è in atto una momentanea sospensione del compito mentale di differenziare la realtà dalla fantasia e in cui possono coesistere ‘stati sovrapposti’ appunto: ‘essere’ e al tempo stesso ‘non essere l’altro-oggetto’, essere separati e al contempo in unione con l’ambiente” (p.146). Nel dare risalto alla questione dell’integrazione corpo-mente, l’Autore mostra poi una rivalorizzazione della centralità della sessualità nel pensiero freudiano, vista come libido, che nell’apertura intersoggettiva, diviene Eros, e si contrappone a Thanatos. Stangalino inoltre considera la formazione dei sintomi come prima creazione psichica del soggetto  psicosomatico unitario e come tentativo di guarigione, non come semplice evacuazione del mentale nel corpo, ma come espressione di una ricerca creativa di soluzioni da parte del soggetto sofferente.

Il libro di Maurizio Stangalino, generoso di contributi scientifici e culturali, e scritto in modo chiaro e scorrevole, pone questioni rilevanti, e stimola perciò molte possibili riflessioni. Vorrei soffermarmi in particolare sulle implicazioni teorico-cliniche relative alla scelta del modello di pensiero bioniano, per quanto riguarda la relazione madre-bambino e soprattutto per quanto riguarda l’articolarsi dell’Essere, del Divenire, e dell’esperienza soggettiva del tempo.

 Bion pone la relazione madre-bambino al centro della psicoanalisi in quanto modello di come una mente si crea per la prima volta e di come poi si sviluppa. Come sottolinea Civitarese (2023), qui più che di modello madre-bambino, dovremmo parlare però di modello madre-infante, in quanto il termine “infante” designa il bambino che non è ancora in grado di capire il significato astratto delle parole. Specificare questo ci permette di ottenere un modello esplicativo anche in merito alla comunicazione non verbale nella psicoanalisi degli adulti, un aspetto di cui con il tempo abbiamo colto sempre di più la rilevanza in qualsiasi analisi e con qualsiasi tipo di paziente. Secondo Civitarese, il modello bioniano può rischiare di essere inteso in senso troppo unidirezionale e non contemplare abbastanza la reciprocità che connota la relazione madre-infante sia quando le cose vanno abbastanza bene, sia quando non vanno bene. Si tratta di un tipo di reciprocità che può essere ben rappresentato dall’’idea della “danza”, in cui madre e bambino a un certo punto sincronizzano i movimenti e le espressioni l’uno dell’altra, una danza che non ci sarebbe se fosse presente solo il bambino o solo la madre. Alla fine si crea un sistema dinamico più o meno capace di operare delle trasformazioni delle turbolenze emotive che lo pervadono, grazie alla funzione alfa e alla funzione di rêverie della madre. Quest’ultima va intesa non semplicemente come un fantasticare, ma come un modo di amare, di investire l’altro con uno sguardo di affetto e di preconcezioni di ciò che il bambino diventerà. Nell’addentrarsi nella dinamica della relazione madre-bambino, destinata ad accompagnare tutta l’esistenza, Stangalino correla il modello bioniano alla nozione descritta da Trevarthen (1993) di intersoggettività primaria, di cui continuerà sempre a rimanere traccia profonda nelle memorie implicite. D’altro canto tutta l’esperienza relazionale della madre con il bambino, che possiamo immaginare come un succedersi multiforme di “danze a due”, rende bene la natura del gioco dinamico di interazioni non verbali e microregolazioni reciproche che sostengono il processo vitale di soggettivazione. È a questo proposito che Stern (2010) ha parlato di “forme vitali”, intendendo una qualità intersoggettiva che induce a percepire la relazione in una forma dinamica che trasmette un senso di vitalità. In linea con il modello bioniano, anche le suddette concettualizzazioni ritengono centrale per la sopravvivenza psichica, la qualità della prima esperienza introiettata dell’holding materna, come sostegno dell’esperienza psichica e, secondo Green (1984), come struttura fondante. Infine anche gli studi di Rizzolatti (2006) e Gallese (2013)  ci prospettano un modello diadico in cui si fondono intersoggettività e intercorporeità: una relazione in cui gli “stati mentali” del bambino e della madre, evocano reciprocamente, l’uno nell’altro e viceversa, una risposta empatica, grazie al sistema specchio neuronale. Queste così peculiari reti neurali si attivano tutte le volte in cui si osserva compiere un’azione nell’ambito di un interscambio relazionale, rappresentando la prova dell’esistenza di una comunicazione pre-simbolica e pre-verbale, al di là della consapevolezza, tipica nelle prime interazioni madre-bambino, basata su posture, espressioni, gesti, movimenti muscolari ed emozioni, che confluiscono nella dimensione dell’implicito, del non rimosso. Tali dinamiche sono del resto di facile accesso alla osservazione della ricchezza intersoggettiva del “gioco di sguardi” tra madre e neonato, e sono state magistralmente descritte e approfondite da Winnicott (1971), che afferma: “[…] il precursore dello specchio è il viso della madre […] se il viso della madre non risponde, lo specchio diventa una cosa da guardare, non qualcosa in cui guardare dentro”.

Per quanto attiene all’Essere e al Divenire, e alla questione del tempo, Stangalino, nel rendere disponibili una vasta serie di conoscenze nel campo della fisica, ci permette di avvicinarci al mistero di un universo che dal “vuoto fluttuante” iniziale si è evoluto verso sistemi a crescente complessità, fino a configurare strutture “aperte”, in grado di scambiare con l’ambiente energia, materia e/o entropia e a raggiungere con l’Uomo e la sua mente un altissimo vertice evolutivo. Si tratta di un divenire complesso, dominato dal non-equilibrio e da una dinamica irreversibile, da un tempo in cui gli esseri viventi nascono, vivono e muoiono, e in cui le nozioni di “reversibilità” della fisica classica sono riconducibili solo a casi particolari. “Il tempo della vita è infatti un tempo complesso, fatto di accelerazioni, di pause, di rallentamenti, ripetizioni e ritorni all’indietro o di “anticipazioni” di qualcosa che si percepisce arriverà. Un tempo insomma molto più affine a un testo musicale che al monotono scandire di un orologio” (p. 34).  È solo con l’avvento della meccanica quantistica che vengono gettate le basi per l’affermazione di una irreversibilità temporale, e che si rende necessario prendere in esame il ruolo dell’osservatore, e dare risalto all’elemento “probabilistico’ e “soggettivo” dei fenomeni osservati. Per Einstein l’irreversibilità del tempo rimarrà come una illusione derivata da una soggettiva ignoranza delle condizioni iniziali, rimanendo di fatto, pur nella straordinaria novità dell’approccio, ancorato alla fisica classica. Il tempo dunque per Einstein non esiste: noi non vediamo mai il tempo; noi seguiamo con gli occhi il pendolo che oscilla, osserviamo il colore delle foglie degli alberi mutare, le stagioni passare. Ma il passato non esiste in quanto non è più, il futuro non esiste in quanto non è ancora, e il presente sembra essere quell’eterno istante che separa il prima dal dopo. Con la teoria della relatività, Einstein ci rivela che il tempo non è ciò che abbiamo da sempre immaginato: il tempo non è assoluto bensì relativo, visto che l’unica entità ad essere costante è la velocità della luce, e che il tempo si deve adattare a questa velocità, sempre costante. Per quanto riguarda la valorizzazione della coscienza soggettiva del tempo, in passato, è solo con Agostino (398) che il tempo viene ad assumere il significato di “tempo vissuto”, che acquista senso pieno, come dimensione del presente, solo quando è posto in relazione a un orizzonte temporale. Questo è un passaggio cruciale, che da una parte porterà agli ulteriori sviluppi della “filosofia dell’esistenza”, attraverso Pascal (1669) e Kierkegaard (1843), per giungere sino ad Husserl (1917), Bergson (1938), Heidegger (1927,1969) e infine a Binswanger (1970) e Borgna (1988); dall’altra  costituirà il presupposto per una visione divaricante, ancora esistente, tra cultura umanistica e cultura scientifica. Nel campo della fisica è solo con Prigogine (1986, 1988) che si è infine raggiunta una formulazione dell’irreversibilità che abbraccia sia il mondo microscopico che quello macroscopico, all’interno di una visione in cui la concezione statica dello spazio-tempo è sostituita dalla connotazione dinamica della “temporalizzazione dello spazio”, e in cui il tempo ha un ruolo creativo. Prigogine (1986) prova a rispondere alla questione fondamentale di come nasca il tempo, affermando che il tempo rappresenta il prerequisito dell’universo, in quanto precede l’universo, è un qualcosa di già esistente in forma germinale, prima che si sia determinata quella “instabilità”  che ha mosso il “vuoto inquieto” da cui ha avuto origine l’universo. Prigogine ha a lungo studiato i comportamenti della materia in condizioni di non-equilibrio, introducendo il termine strutture dissipative, dimostrando come la dissipazione dell’energia e della materia diventi, lontano dall’equilibrio, fonte di ordine e possa dare origine a nuovi stati della materia. Quando si forma una struttura dissipativa, l’omogeneità del tempo e dello spazio può essere infranta, e le condizioni di non-equilibrio e di turbolenza portano un cambiamento, a una “situazione nuova”, fino ad assumere una qualità di “mutamento catastrofico”. Prigogine stesso ha accennato alla possibilità di considerare il prodotto dell’attività cerebrale, il pensiero e la coscienza, attingendo al modello funzionale proprio delle strutture dissipative. Se intendiamo portare avanti questa linea di pensiero, dobbiamo tener conto del fatto che l’elemento primario e centrale della dimensione del non-equilibrio è il tempo. È lo stabilirsi nel corso dello sviluppo individuale di una dimensione cosciente del tempo a rappresentare e rendere possibile un ponte verso il mondo reale del divenire e della trasformazione. Sulla scia di tutte le suddette considerazioni, nel rivolgere l’attenzione alla piena espressione dell’Essere, al suo divenire pensante, cioè alla nascita psichica individuale, non possiamo non immaginarla disgiunta dall’ingresso nell’esperienza soggettiva del tempo e a una graduale conquista della dimensione temporale. L’affacciarsi alla vita è un emergere progressivo dalla condizione turbolenta e marasmatica pre-perinatale, grazie alla relazione diadica con la madre. Ferrari (1992) individua il passaggio dell’ingresso nel flusso temporale come il momento in cui la rêverie materna determina una precisa spinta organizzatrice e integrativa, per cui il corpo si “eclissa” e si avvia la nascita psichica. In linea con Ferrari, Lombardi (2016) considera “la percezione del tempo uno dei primi principi organizzatori che permettono l’avvio dell’eclissi del corpo e la costituzione di uno spazio mentale”. Andando a ritroso, agli inizi della vita fetale, sono oltremodo interessanti le riflessioni di Mancia (1980, 2005,2007) sul “sogno come esperienza presimbolica”, sulla peculiarità del sonno fetale che emerge nelle ultime settimane di gestazione, l’organizzazione delle funzioni nervose che compaiono nel feto sotto forma di “sonno attivo”. Quest’ultimo secondo Mancia sarebbe il “contenitore” in cui si pongono le basi per la formazione di un primo nucleo di attività psichica, in cui si può rintracciare la prima fase dell’incontro che Bion ha presupposto debba poi avvenire tra rappresentazioni mentali ereditarie (preconcezioni) ed esperienze sensoriali costituite da forme elementari di percezione. A questo livello gioca un ruolo fondamentale la “sensorialità” come mezzo efficace per elaborare il “contenitore”. È un ruolo che non termina alla nascita, ma che continua, come dimostrato dagli studi di Bick (1968), e successivamente di Anzieu (1985), sulla “pelle” come organo limite tra interno ed esterno, creando “le condizioni per la costanza del mezzo interno” (Mancia, 1980). Stangalino evidenzia come già nelle condizioni proto-oniriche fetali, in un’ottica bioniana, si intravede la possibilità di accogliere e intervenire sulle prime esperienze mentali, a partire da elementi sensoriali ancora grezzi e indifferenziati, “elementi beta”, per avviare quello sviluppo trasformativo che potrà poi portare alla formazione di “elementi alfa” e al pensare i pensieri.

Sempre a proposito dell’Essere, del Divenire, e della dimensione del tempo, in un lavoro recente Civitarese (2019) avanza l’ipotesi che in A Theory of Thinking Bion elabora una originale teoria del tempo e della sua genesi. Civitarese parte dalla distinzione tra concezione (conception) e pensiero (thought), che Bion lega rispettivamente a una esperienza di appagamento e di frustrazione nel bambino: l’esperienza emozionale di soddisfacimento, data dall’incontro di una preconcezione con il seno reale, conduce a una concezione; l’immagine di un neonato che accoppia la sua aspettativa di seno (preconcezione), con un seno assente, “no-breast”, corrisponde al modello del pensiero. Come sappiamo, il pensare si sviluppa quando il neonato realizzando l’assenza di un seno disponibile, ha la capacità di tollerare la frustrazione, ovvero il dolore. Se tale capacità è sufficiente, il “non-seno”, diventa un pensiero e si sviluppa l’apparato per pensare; se è inadeguata, il neonato ha un’esperienza emotiva dolorosa che non riesce a pensare, ma solo a evacuare come elemento beta, attraverso l’identificazione proiettiva. L’ipotesi di Civitarese è che “concezione” e “pensiero” debbano essere pensati insieme in una relazione dialettica, in cui ogni termine simultaneamente nega e riafferma l’altro. “Una matrice, dunque, che dà origine a un primo ordine temporale pre-riflessivo, che assume lo stato di tempo soggettivo – sia nel senso di durata che di rappresentazione astratta – solo quando è incorporato nell’ordine simbolico grazie alla funzione del linguaggio. Per Civitarese, l’incontro di una preconcezione di seno con la mera alternanza di presenza e assenza del seno, non può generare un concetto di tempo fino a quando non venga dato un nome all’esperienza” (Rugi, 2023).  Il soggetto struttura temporalmente la sua esistenza in termini di passato, presente e futuro, e più tardi sulla base di un tempo consensuale e misurabile. Questa ipotesi è quindi  in accordo con la teoria della mente di Bion, che è totalmente relazionale, e i pensieri senza pensatore sono possibili perché la relazione e la socialità precedono l’origine del soggetto. Il bambino è parlato dal linguaggio, perché è soggetto a esso, e parla il linguaggio, esprime se stesso e dà un significato alle cose. Bion individua dunque il problema della percezione soggettiva del tempo nella qualità della relazione madre-infante e nella capacità di tollerare la frustrazione. Nei casi in cui ci sia un’intolleranza alla frustrazione e a monte gravi difficoltà relazionali primarie, spazio e tempo sono percepiti come cattivi oggetti distrutti, cioè come ‘non seno’ (Bion, 1967). Allora il prevalere dell’identificazione proiettiva conduce alla confusione tra Sé e oggetti esterni, e alla distruzione del tempo, come nell’episodio del cappellaio matto, in Alice nel paese delle meraviglie, in cui erano sempre le quattro.        

Nel concludere il mio commento, vorrei riportare il pensiero di Rovelli, rispetto alla domanda che egli si pone: che cosa è il tempo per noi esistenti? “Il ricordo e la nostalgia. Il dolore dell’assenza”. Questo è il tempo per noi, scrive Rovelli (2017). Egli aggiunge che anche il dolore dell’assenza è buono e bello perché nasce dall’amore e si nutre di ciò che dà senso alla vita. Quando caliamo il nostro sguardo fenomenologico sul tempo soggettivo, è probabile quindi che troviamo il dolore. Il dolore lascia il segno, anche se resta misterioso il suo modo di imprimersi nella carne e nella mente. I segni del dolore sono traccia del tempo. Ogni segno è comunque traccia di un presente vivente, di cui il passato e il futuro sono le vere dimensioni temporali. Deleuze (1968) ricorda che “la cicatrice è il segno non della ferita passata, ma del ‘fatto presente di aver ricevuto una ferita’”. È l’idea bioniana del passato che agisce nel qui e ora, “il segno che ha lasciato ora, su di voi, su di me, o su di noi” (Bion, 1977).

Riferimenti bibliografici

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Sognare

Iscrizioni aperte- Sabati del CPF – Il Lavoro dei Sogni. Sognare nella realtà contemporanea

Sabato 24 febbraio 9.30-13.30 | Paolo Fabozzi, Paola Freer

Sabato 13 aprile 9.30-13.30 | Stefano Bolognini, Stefano Calamandrei

Sabato 21 settembre 9.30-13.30 | Andrea Marzi, Gregorio Hautmann (Gruppo Bion CPF)

Sabato 26 ottobre 9.30-13.30 | Virginia De Micco, Cecilia Ieri

Sabato 9 novembre 9.30-13.30 | Massimo Vigna-Taglianti, Raffaella Tancredi

 

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INTERO CICLO: Esterni € 200,00; Soci SPI, Candidati SPI e Studenti € 150,00
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Il CICLO DI SEMINARI rilascia 30 crediti formativi ECM previa partecipazione al 90% dei lavori scientifici e alla verifica positiva dell’apprendimento, accertato mediante questionario online. Il questionario finale sarà disponibile su www.matrixecmfad.it, a partire dalle ore 13:30 del 09.11.2024 e dovrà essere svolto entro i successivi 3 giorni, ovvero entro le ore 13:30 del 12.11.2024. Il partecipante avrà a disposizione un massimo di 5 tentativi di compilazione.
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